Paolini, partiamo da Ulisse?
«Sono anni che ci lavoro su. Il primo passo risale al 2003: con Uri Caine, Giorgio Gaslini, nella nave-teatro di Arnaldo Pomodoro, presentai un racconto breve che poi rifeci più volte».
E stavolta?
«Siamo partiti dall’idea che Ulisse dieci anni dopo il ritorno a Itaca e la strage dei Proci sia ripartito con un remo in spalla, lontano dal mare, dove incontra un uomo che, secondo la profezia di Tiresia, gli permetterà di tornare a casa per sempre. E quell’uomo noi lo materializziamo in uno studente che conosce Ulisse dai banchi di scuola, uno che ha l’età di chi mette in discussione l’eredita dei padri».
E il calzolaio chi è?
«Ulisse. Lo dice Eratostene di Cirene, Ulisse vuole l’anonimato e si nasconde fingendosi calzolaio.
Ma, nel nostro racconto, lo studente riconosce in lui la rockstar e la costringe a raccontarsi. Ulisse è sempre lui, quello che è cambiato è il genere umano. Intorno a lui ci siamo noi uomini di oggi, semidei che crediamo di potere fare tutto.
Anche quel ragazzo per Ulisse è un alieno. Come spesso lo sono i figli per i genitori».
Eppure Ulisse non è uno sprovveduto, no?
«Ulisse è il coraggio, l’eroismo, la furbizia, ma a mi me piase de più pensarlo come uno che in mar ghe
va perché s’è costretto, ma è un contadino che sarebbe rimasto volentieri a casa a coltivare il campo. E non lo dico a caso perché i greci di navigazione sapevano poco».
Lo spettacolo rifarà la sua odissea?
«Non è mica un ripasso. Se l’Odissea continua a battermi in testa è per motivi legati al nostro tempo, l’emergenza delle migrazioni, la fine degli eroi, il prezzo che si paga quando ti fanno credere che la tua vita è un diritto, ma anche quella sensazione frustrante di essere oggi spettatore impotente di qualcosa che ci sta cambiando la qualità dell’aria, e rende pesanti anche solo il restare umani».
Si riferisce a chi definisce “pacchia” le odissee di oggi?
«È talmente scontato che non c’è bisogno di sottolinearlo, anche se sarà uno spettacolo radicalmente politico. Perché sono tempi in cui condividiamo solo pensieri oscuri, difensivi; l’unico collante tra le persone è la paura. Io vorrei alzare l’asticella della sfida, e indurre a condividere non più la paura, ma la dignità, il sogno».
E l’altro lavoro? Ci sono punti di contatto?
«Non direi, anche se c’è sempre Francesco Niccolini, qui coautore con Rigoni Stern. Si racconta la guerra nell’esperienza di un vecchio contadino, Tönle Bintarn, che tornando a casa pensava di ritrovare un mondo che non c’è più. Mi piace perché è un lavoro senza retorica, lassù sotto la vetta del monte Tomba dove bisogna andar su a piedi, con una fatica condivisa, un coro straordinario. E poi ho un debole per Simone Cristicchi perché è una forza della natura, ha i capelli e io no, lui del sud e io del nord, lui interpreta il giovane e io il vecchio e questa è l’unica cosa su cui il drammaturgo non ha avuto la mia approvazione».