Come se non bastasse, anche il padre Mario Formenton è stato un editore molto stimato e molto rimpianto. «Cosa ho fatto io che loro non hanno fatto? Sarei molto presuntuoso a rispondere: i miei famigliari sono artefici di grandi imprese». Poi però Luca Formenton, 65 anni, da 25 dominus del Saggiatore, una risposta la trova: «Credo di essere stato più felice nel lavoro».
Lei è rimasto fedele alla figura dello zio Alberto, che s’era ribellato al padre e alla famiglia.
In che misura si sente a lui vicino?
«Io mi rifletto in quello che zio Alberto era veramente, non nella falsa iconografia dell’eretico sfortunato, succube del padre Arnoldo e angustiato da mille problemi edipici.
In realtà ci sarà stato anche quello, ma era un grande editore appassionato e geniale, capace di affidare una collana a Jaques Lacan quando ancora non era così conosciuto negli ambienti italiani».
Conserva ricordi personali?
«Sì, era un uomo imponente e molto alto, come tutti i figli maschi di nonno Arnoldo. E in noi nipoti incuteva una certa soggezione.
Ma la cosa che colpiva era la sua curiosità per il nuovo. “Bisogna essere contemporanei del proprio e altrui futuro” è un suo motto che abbiamo cercato di fare nostro».
Anche nell’ultima “Storia del Saggiatore”, preparata per questo sessantesimo anniversario, vi definite una casa editrice di sinistra. Cosa vuol dire?
«A dire il vero preferisco definirmi un editore illuminista. Rispetto a ciò che è diventata la casa editrice, il termine “sinistra” mi sembra antiquato. Oggi l’editoria si divide non per categorie politiche ma sulla base dell’indipendenza.
Distinguerei tra chi costruisce dei libri e chi li subisce dal mercato. La cosa di cui vado più orgoglioso è l’aumento dei libri che vengono pensati e progettati in redazione».
Oggi lo fanno in pochi?
«Certo non i grandi gruppi in cui ha prevalso la filosofia manageriale.
Già negli anni Ottanta gli editori hanno cominciato a cedere il passo ai direttori di azienda. E questa filosofia sarà stata utile ad accrescere gli utili, ma ha contribuito alla desertificazione progressiva dei lettori: a furia di fare libri standard, gli editori sono venuti meno a uno dei loro compiti principali che è quello di creare nuovi lettori.
Rubo le parole a Carlos Fuentes: “Non bisogna dar loro solo quello che vogliono”».
Fin dal principio lei ha pubblicato libri civili. Ricordo i primi titoli sul razzismo, sull’eguaglianza e una indagine sullo stato dell’Italia affidata allo storico Paul Ginsborg. Era il 1993. Che casa editrice aveva in mente?
«Pensavo che in quel difficile passaggio storico occorresse dare degli strumenti per cambiare il Paese. Ma visto quello che sta succedendo in questi giorni non devo esserci riuscito granché».
Oggi come si sente?
«Sento accresciuta questa responsabilità civile. Forse non è un caso che abbia ripreso il filone del razzismo e dell’apartheid».
Lei è stato anche l’editore del “Diario”, il settimanale diretto da Enrico Deaglio. Ma questo impegno dichiaratamente di sinistra può essere letto come una forma di espiazione rispetto al peccato originale? Mi riferisco alla decisione, condivisa con sua madre nell’89, di cedere le vostre quote della Mondadori a Silvio Berlusconi, rompendo il patto con Carlo De Benedetti.
«No, per carità, non voglio rivangare quella vicenda. Forse un giorno quando avrò ottant’anni scriverò un libro. Gli appunti li ho conservati. E poi ho fatto pace con tutti, a partire da Eugenio Scalfari».
Resta il fatto che da quell’atto scaturì un gigantesco trust multimediale - tra libri, Tv e giornali, inclusa Repubblica sotto la guida di Berlusconi. Poi le cose avrebbero preso una piega diversa. Ma non ha mai riflettuto sulle conseguenze politiche e culturali che avrebbe potuto avere la sua decisione?
«Quando a 35 anni erediti un patrimonio accumulato da tuo padre, tua madre e tuo nonno e sei responsabile del futuro della tua famiglia, pensi a salvaguardarlo nel migliore dei modi. Quindi non posso rispondere delle conseguenze politiche di quell’atto. E poi si dimentica che all’epoca Berlusconi non era né di destra né di sinistra, ma un imprenditore e basta».
Un imprenditore molto chiacchierato e molto legato alla politica. Ma da allora non c’è stata una sua maturazione personale? I giornali la descrivevano come un ragazzo arrogante.
«Non sono mai stato arrogante. Un giornalista dell’Unità scrisse un articolo sui figli di papà con spider. Gli telefonai. E dopo avermi conosciuto dovette ammettere che non appartenevo a quella schiatta».
A dire il vero lei appare tutt’altro che arrogante. Ma Carlo Caracciolo si lamentò perché l’aveva ricevuto con i piedi sul tavolo.
«Uffa. I piedi sul tavolo li tengo anche ora. È un’abitudine americana che ho contratto anche per problemi di circolazione.
Sciocchezze».
Ma non si sente diverso dal ragazzo di allora?
«Sì, certo. Sono una persona molto più posata e più capace di mediazione. E soprattutto molto più in pace con se stessa».
Dei suoi venticinque anni al Saggiatore cosa la inorgoglisce di più?
«Avere mantenuto alto il marchio, salvaguardandone l’autonomia».
Lei insiste molto sulla necessità di mescolare i generi. Dove crede di esservi riuscito meglio?
«L’esempio classico è Patria di Enrico Deaglio, quasi ottantamila copie: una narrazione in massima forma al servizio di quarant’anni di storia d’Italia. E gli altri nostri bestseller – L’anno del pensiero magico di Joan Didion, Il cigno nero di Nassim Taleb, Senza perdere la tenerezza di Paco Ignacio Taibo II sono tutti libri che intrecciano il genere saggistico con la scrittura narrativa. Segno che la mescolanza ha funzionato».
Ci sono stati libri spartiacque, titoli che hanno cambiato lo sguardo?
«Sì, diversi. Ma quello che mi ha toccato più personalmente è Il libro dell’incontro che metteva insieme ex terroristi e vittime del terrorismo. Ho partecipato alle ultime fasi di un percorso durato anni e confesso che trovarmi a discutere nella stessa stanza con Agnese Moro, con Giovanni Ricci, figlio dell’autista di Moro, e con Adriana Faranda è stata una elle esperienze più intense della mia vita».
Un altro incontro importante è stato con Allen Ginsberg.
«Sì, come dice Wagenbach bisogna perseverare nelle proprie convinzioni anche se passano per follie: altrimenti non ha senso essere editori indipendenti. A 19 anni avevo messo in scena uno spettacolo con una coda tratta dall’Urlo di Ginsberg.
Dopo molti anni sarei andato a trovarlo nel suo ufficio di Union Square, a New York. Volevo diventare il suo editore italiano».
Come l’accolse?
«Mi squadrò lungo e poi mi propose una passeggiata dal suo agente, che era Andrew Wylie. Durante il percorso mi tartassò di domande: chi ero, la mia famiglia, che generi di libri pubblicavo. Aveva l’aspetto del professore più che dell’icona della Beat Generation. Quando arrivammo a destinazione, mi presentò a Wylie: “Ecco il mio editore italiano”».
Voi avete dedicato grande spazio alla narrativa omosessuale e al popolo Lgbt prima di tanti altri editori. Quanto ha influito il suo coinvolgimento personale?
«Sicuramente ha influito: sarebbe stupido negarlo. È un altro dei vantaggi di essere editore di te stesso».
Ci sono stati momenti difficili in questi 25 anni?
«Sì, quando abbiamo avuto anche noi la tentazione di diventare un gruppo acquisendo Pratiche e Tropea. E poi confesso un momento di difficoltà personale: avendo messo in pista una delle rivoluzioni generazionali più grandi che ci sia mai stata nell’editoria italiana – ho in redazione quasi esclusivamente trentenni – adattarsi a lavorare con persone tanto più giovani non è sempre facile».
Riferimenti culturali diversi?
«No, non tanto questo: i mie trentenni leggono Joyce e Proust.
Sono diversi i riferimenti quotidiani, quindi non ti puoi sforzare di diventare amicone dei tuoi redattori. Ma il momento critico è durato poco.Ora grazie a una squadra diretta dal bravissimo Andrea Gentile posso occuparmi di cose che mi piacciono come BookCity e la fondazione Mondadori. E la casa editrice va molto meglio di prima, anche sul piano dei fatturati».