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 2018  luglio 11 Mercoledì calendario

Ecco la prima bambina. “Così imparammo a camminare”

Possiamo immaginarla come un’antesignana di Cosimo, il protagonista de Il barone rampante che il 15 giugno del 1767 si rifugiò tra gli alberi e non ne scese mai più. Lei è l’ominide Selam ed è vissuta 3,32 milioni d’anni fa. L’hanno battezzata la “bimba più antica del mondo” e camminava bene, quasi quanto noi. Ma conservava una straordinaria abilità di dileguarsi tra gli arbusti, «più in alto che si poteva», e molto meglio di quanto ipotizzato. Un piano b da far diventare operativo quando il gioco sulla Terra si faceva troppo duro, come racconta uno studio appena pubblicato su Science Advances che porta la firma di cinque università statunitensi.
«Una ricerca importante», spiega a Jeremy DeSilva, antropologo e principale autore dell’analisi. E non solo perché è stata condotta su un raro piede d’ominide, quasi introvabile. Ma anche per via dell’età della proprietaria: appena due anni e mezzo, equivalente ai cinque di un umano moderno. «In pratica, era poco più di una bebè e i suoi passi ci permettono di capire il modo in cui l’abilità di camminare si è evoluta nei nostri antenati, nonché di farci un’idea approfondita della loro vita quotidiana. Una giornata tipo vedeva gli adulti scorrazzare per le radure procacciando il cibo. Mentre i più piccoli, come Selam, trascorrevano ore tra gli alberi per giocare o evitare i pericolosi predatori».
Tutto scritto in 52 ossa che sono state trovate nel 2002 nell’area di ricerca di Dikika, in Etiopia. Erano solidificate in un piccolo pezzo d’arenaria, cioè una roccia sedimentaria costituita da granuli di sabbia, e sono state faticosamente ripulite, rimuovendo granello dopo granello. Solo nel 2009 DeSilva ha iniziato a studiarne l’anatomia, confrontandola con quella di altri primati e umani. Fino a ottenere i risultati appena presentati in cui si scopre che l’osso alla base dell’alluce di Selam, chiamato cuneiforme mediale, è più curvato e leggermente più ad angolo «rispetto a quel che conosciamo della morfologia degli adulti della stessa specie». Ne consegue la maggiore mobilità di un “ditone” sempre pronto ad artigliare rami. Più fragile, invece, è la parte posteriore del piede che nel complesso ha le dimensioni del pollice di un uomo adulto.Caratteristiche inaspettate che suggeriscono la marcata propensione dei giovani ominidi a una vita tra le fronde e aggiungono nuovi dettagli a quanto conosciamo di questi avi. Perché la cucciola è un Australopithecus afarensis al pari della celebre Lucy, anche se è nata decine di millenni prima. Una scimmia antropomorfa che percorreva le pianure africane tra i tre e i quattro milioni di anni fa reggendosi su due gambe. La sua abilità di rimanere in posizione eretta non si discute: il primo indizio delle antiche passeggiate è stato individuato dall’antropologa inglese Mary Leakey negli anni Settanta. Nuove orme ne hanno poi svelato la corporatura, con i maschi più grandi e le donne piccine, aggiungendo anche dei dettagli piccanti: ogni uomo dominante amava metter su il proprio harem di femmine. Ma stanco di andare a zonzo, quando il Sole scendeva sotto la linea dell’orizzonte, l’australopiteco cercava rifugio tra i baobab.
«Per questi ominidi il bipedismo non era obbligato, come per noi, ma facoltativo», dice Giorgio Manzi, paleoantropologo alla Sapienza Università di Roma. Quindi oltre a gambe più forti di quelle delle scimmie ma meno delle nostre, avevano arti superiori ben sviluppati, come suggerivano già degli studi condotti sulle ossa di Lucy e di altri reperti. Criticate da parte della comunità scientifica, adesso quelle ricerche trovano una conferma definitiva nell’ultima analisi che per di più aggiunge un dettaglio curioso: con l’avanzare dell’età, la capacità di andare per alberi diminuiva.
«La spiegazione possiamo cercarla nelle ragioni alla base del bipedismo che», prosegue Manzi, «probabilmente si è sviluppato per controllare il territorio aperto, per cui i nostri antenati avevano grossi problemi a tenere a bada le belve e preferivano mettere i cuccioli al sicuro tra gli arbusti». «E lo stesso vale per gorilla e scimpanzé», sottolinea Stefano Benazzi, docente nel dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna, mentre «la definitiva perdita delle abitudini arboricole ha segnato il passaggio al genere Homo». Con qualche eccezione, come Cosimo.