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 2018  luglio 11 Mercoledì calendario

Massimo Fini, il misantropo indulgente

Massimo Fini la pensa come Catherine Deneuve. A suo avviso nel gioco della seduzione l’onere della «prima mossa» ricade per natura sull’uomo, quindi c’è «sempre un momento in cui lui deve fare necessariamente un atto intrusivo nella persona e nella sfera latu sensu sessuale di lei». E situazioni del genere «rientrano nell’inespresso, nel non detto, fanno appello alla sensibilità di ciascuno, non possono appartenere all’esplicito e ancor meno al giuridico». Ben prima del caso Weinstein, sul Di(zion)ario erotico di Fini fioccarono accuse di misoginia (oggi si dice «sessismo»). Nulla di cui stupirsi, visto che dipingeva l’universo femminile come «primordiale, istintivo», anzi caotico, all’apparenza passivo e in realtà dominante.
Ora l’autore ripropone quell’urticante vocabolario, datato 2000, nel volume Confesso che ho vissuto (Marsilio, pagine 551, € 22) e a chi lo taccia di essere misogino risponde nell’introduzione di sentirsi piuttosto, giunto al traguardo dei 74 anni, «misantropo». Autodefinizione in parte esagerata, perché Fini sa mostrarsi comprensivo verso il prossimo, ma corroborata da molti passaggi della sua prosa. Quando descrive in toni crudi le miserie di noi mortali, tipo gli sforzi vani per vincere la vecchiaia con penosi artifici, fa davvero venire in mente il più tagliente detrattore del genere umano, Jonathan Swift.
Se quindi possono indispettirsi le donne, bollate come emotive, esibizioniste, ingannatrici, ben più spietato è il giudizio che Fini riserva ai maschi, compreso se stesso. Semplici burattini, sostiene, che la natura impiega per garantire la prosecuzione della specie, ma così presuntuosi da inventarsi una quantità infinita d’illusioni per mascherare l’irrimediabile «complesso d’inferiorità che l’uomo ha nei confronti della femmina per la sua capacità di procreare».
Oltre al Di(zion)ario erotico il volume raccoglie altri due libri d’impronta personale: Ragazzo, dedicato all’inesorabile scorrere del tempo, e Una vita, autobiografia in cui Fini non tace nulla di sé. E se il primo testo mette addosso una gran malinconia per come si avventura sui sentieri dolorosi del decadimento senile e per come denuncia la rimozione della vecchiaia e della morte nella società di oggi, il secondo si legge d’un fiato, per gli squarci vividi che apre sul passato dell’Italia e soprattutto di Milano, per i ritratti anticonvenzionali e compassionevoli di personaggi famosi, per il coraggio sfacciato (ma ricco di venature struggenti) con cui l’autore ripercorre i momenti peggiori della sua esistenza: i problemi di alcolismo, la depressione, l’avanzata del glaucoma che ne ha compromesso la vista.
Non è un carattere facile, Fini. Spirito polemico e bastian contrario, è riuscito a litigare con mezza Italia e a perdere il lavoro più volte, ma ha finito solitamente per riconciliarsi con le persone a cui riconosce intelligenza e carattere. È un antiberlusconiano per indole, e per questo ha pagato un prezzo pesante, ma le sue memorie si chiudono con un moto di commiserazione per il declino del magnate di Arcore e il dissolversi delle sue «formidabili energie». Non potrà mai attenuarsi invece l’ostilità di Fini verso la modernità illuminista e industriale, perché è convinto che ci stia portando alla catastrofe. Infatti la sinistra progressista non lo può vedere, nel senso proprio che ne ignora l’esistenza, si rifiuta di considerarne le idee.
Così Fini si è ritrovato a essere «un uomo solo», una voce dissonante in ogni luogo. Poco male. Quella solitudine scorbutica e feconda fa rima con libertà.