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 2018  luglio 09 Lunedì calendario

Donald Trump e l’Unione nemici-amici obbligati contro i raid hi-tech di Pechino

Divisi dai dazi sull’acciaio, sui jeans e forse domani anche sulle Porsche, americani e europei sono più vicini di quanto sembri su qualcosa di più importante: il loro rapporto con una Cina decisa a sfidare le potenze avanzate nelle nuove tecnologie. Jean-Claude Juncker alla Commissione europea non twitterà mai con la virulenza di Donald Trump. Eppure su certe questioni gli europei nella sostanza, se non sullo stile e nell’approccio, non sono poi così distanti dall’attuale presidente americano. Gli alleati transatlantici assistono con lo stesso nervosismo alla transizione della Cina da potenza manifatturiera a economia della conoscenza.
Non tutto è uguale, naturalmente. La Commissione europea non sceglierà mai la strada delle ritorsioni commerciali unilaterali a largo raggio. Venerdì scorso Trump ha fatto scattare dazi su importazioni di prodotti cinesi per 34 miliardi di dollari e ha minacciato di estendere le misure su un volume commerciale da 500 miliardi di dollari se Pechino reagisse. Una simile aggressività è lontana dal linguaggio diplomatico dell’Europa, eppure qualcuno a Bruxelles deve aver letto con interesse un documento che la Casa Bianca ha pubblicato a fine giugno.
Il documentoQuel rapporto americano è inequivocabile fin dal titolo: «Come l’aggressione economica della Cina minaccia le tecnologie e la proprietà intellettuale degli Stati Uniti e del mondo». Colpisce come quel testo, voluto dal consigliere di Trump Peter Navarro, riecheggi un simile documento europeo di pochi mesi prima. I toni sono diversi, i contenuti in parte no. Il rapporto americano suona come una dichiarazione di guerra industriale. L’altro, pubblicato dalla Camera di commercio europea in Cina alla fine del 2017, è dedicato al piano «China Manufacturing 2015» e suona tagliente fin dal titolo: «Privilegiare la politica industriale sulle forze di mercato».
La requisitoria della Casa Bianca non lascia spazio alle possibili ragioni – o motivazioni – dell’avversario. Il ministero della Sicurezza di Stato di Pechino, si legge, utilizza «non meno di 40 mila addetti dell’intelligence all’estero» e ne mantiene «50 mila all’interno del Paese», in buona parte proprio per sottrarre proprietà intellettuale all’Occidente. Navarro solleva l’allarme sui 300 mila cinesi che frequentano le università statunitensi e sul loro possibile reclutamento come spie di Pechino. Quindi il rapporto della Casa Bianca denuncia che uno studio condotto dal gruppo di telecomunicazioni Verizon ha prodotto risultati sorprendenti: su 47 mila «incidenti di sicurezza» negli Stati Uniti, nel 96% dei casi riconducibili a spionaggio industriale sono stati individuati «operatori cinesi». Secondo le stime riportate, per l’America il costo del furto di segreti commerciali da parte di Pechino è fra i 180 e i 540 miliardi di dollari l’anno. Le accuse della Casa Bianca alla seconda economia mondiale sono di una durezza con pochi precedenti anche all’epoca della guerra fredda: «Per più di un decennio il governo cinese ha condotto e sostenuto intrusioni cibernetiche nelle reti commerciali americane mirando a informazioni confidenziali detenute da imprese americane». Il rapporto accusa Pechino di utilizzare «trappole del debito» di natura «predatoria» offrendo prestiti a Paesi in via di sviluppo per poi obbligarli a cedere il controllo delle loro materie prime: bauxite, rame, nickel, ma soprattutto minerali più rari e preziosi per i loro usi tecnologici come il berillio, il titanio e le terre rare. Soprattutto il controllo preponderante di Pechino su queste ultime allarma la Casa Bianca, perché le terre rare rappresentano più del 50% del costo delle turbine a vento e il 60% del costo degli schermi a cristalli liquidi.
C’è però soprattutto un punto sul quale la denuncia della Casa Bianca coincide con quella della Camera di commercio europea: Pechino impone alle imprese estere che vogliono fare affari in Cina di rendere note e trasferire nel Paese le loro tecnologie. Si legge nel rapporto europeo: «Il trasferimento forzato di tecnologie in cambio dell’accesso al mercato è una richiesta sempre più frequente (da parte di Pechino, ndr) perché vengano condivise le tecnologie più avanzate». La denuncia degli europei è anche più circostanziata: «In passato, alcune imprese straniere erano riuscite almeno a limitare in parte questi trasferimenti e dunque a non compromettere la loro competitività. Ma ciò sta diventando sempre più difficile, mentre alcune imprese cinesi risalgono la catena del valore per competere con le controparti estere».
Qui si trova la principale differenza fra l’analisi contenuta nel rapporto europeo e la denuncia della Casa Bianca. Gli europei non giustificano, ma cercano di capire le ragioni dell’aggressività della Cina nella spionaggio industriale. Che si spiegano con un panico strisciante, perché Pechino si sente stretta in una corsa contro il tempo.
L’economia cinese è infatti ancora relativamente arretrata nel complesso: i robot installati sono appena 49 per 10 mila lavoratori attivi (contro 127 in Francia, 160 in Italia, 170 negli Usa e 301 in Germania). La Repubblica popolare oggi produce metà dell’acciao del mondo, 41% delle navi, oltre l’80% dei computer e oltre il 90% dei telefoni cellulari. Ma alle sue spalle incalzano negli stessi settori altre economie dai costi ancora più bassi, come l’India e il Vietnam. Nel frattempo il declino demografico cinese, imposto dalla politica del figlio unico, inizia a mordere: solo fra il 2013 e il 2015 il Paese ha perso ben 8,6 milioni di persone in età attiva. Per salvarsi la Cina deve dunque salire di gamma tecnologica prima di diventare troppo vecchia. Il presidente Xi Jinping ha dato gli obiettivi: entro il 2020 il Paese deve produrre il 75% delle auto elettriche del mondo, il 50% dei robot industriali e dei macchinari medici più avanzati. Anche a costo di lanciare un’offensiva strisciante sui segreti industriali dell’Europa e degli Stati Uniti.