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 2018  luglio 09 Lunedì calendario

«Alla deriva per 41 giorni nel Pacifico dopo l’uragano»

L’Hazana si trovò in mezzo all’uragano Raymond, tra onde alte come palazzi e raffiche di 260 km l’ora, sconquassato come una barchetta giocattolo nelle mani di un gigante. Tami Oldham Ashcraft e Richard Sharp sfidarono l’Oceano e solo uno sopravvisse. «Mi sono chiesta perché non sono morta anch’io. E mi sono data una risposta: destino. Semplicemente non era il mio momento», dice oggi Tami, 35 anni dopo.
Tami e Richard, allora di 24 e 33 anni, californiana la prima britannico il secondo, entrambi nel diporto per lavoro, salparono da Papeete, sull’isola di Tahiti, il 22 settembre 1983. Avevano accettato di trasferire l’Hazana, uno yacht a vela di 13,5 metri, a San Diego in California per poi riprendere la loro fuga d’amore iniziata nel Sud del Pacifico con la barca di Richard. Una ventina di giorni dopo la partenza incapparono nell’uragano. Fu un’ordalia che ebbe la meglio sullo skipper. Quando Richard scomparve l’anemometro segnava 140 nodi e il barometro era al di sotto dei 710 millimetri. Tami era all’interno della barca, sentì il suo compagno – al timone – gridare “Dio del cielo!” e poi tutto si spense. E quando si risvegliò, si trovò sola, su una barca semi-distrutta, confusa da un trauma cranico.
Da qui in poi, comincia la sua battaglia. Resistere, l’imperativo. Salvarsi, l’obiettivo. Tami costruisce un armo di fortuna, imposta una rotta, calcola i punti nave con l’aiuto del sole e di un orologio, supera la disperazione. C’è una voce interiore, la Voce, che l’aiuta. Quella di Richard, crede. Che l’accompagna sino a Hilo, alle Hawaii, alla salvezza, dopo 41 giorni alla deriva. 
Oggi Tami Oldham Ashcraft vive a Friday Harbour, sull’isola di San Juan, negli Usa. È un’imprenditrice, è sposata, madre di due figlie e continua ad andare in barca a vela. «Adoro navigare, mi fa sentire più connessa con la natura e la vita – spiega -. Il mare? Può essere amico o nemico. Ho rispetto per entrambi». 
La sua storia è diventata un libro, Resta con me (HarperCollins, appena uscito in Italia), che ha scritto con Susea McGearhart. «Scrivere è stato molto catartico per me. Raccontare la mia storia d’amore, avventura e sopravvivenza mi ha aiutato a guarire le mie ferite». Il libro è finito nelle mani dei produttori-sceneggiatori Aaron e Jordan Kandell ed è diventato anche un film: sarà nelle sale il 29 agosto, lo ha diretto Baltasar Kormakur (Everest, The Deep), gli interpreti principali sono Shailene Woodley (Tutta colpa delle Stelle, The Divergent Series, Big Little Lies) e Sam Claflin (The Hunger Games). «Adoro il modo in cui gli sceneggiatori hanno tessuto il racconto d’amore con quello della mia sopravvivenza».
Già, come si sopravvive a un incubo simile? «L’istinto di sopravvivenza è molto forte. È nel profondo di ognuno di noi. Il mio corpo è rimasto choccato ma la mia mente è andata in modalità sopravvivenza. Mi sono concentrata sulla risoluzione dei problemi. E una volta che le cose hanno cominciato ad andare nel verso giusto, a far muovere la barca, ho iniziato a sperare che ce l’avrei potuta fare e a pensare che da quel momento dovevo restare forte e concentrata».
Conta la speranza («senza non sopravvivi»), la fede («Molte cose sono andate storte ma molte sono andate bene. Dovevo credere che Dio fosse dalla mia parte per andare avanti. Ho pregato tanto»). E conta anche la seconda esistenza. «Perdere il mio grande amore e sopravvivere contro ogni previsione mi ha dato una prospettiva molto diversa sulla vita. Sono ancora molto determinata, ma attraverso la mia esperienza ho imparato ad essere più paziente, a prendermi più cura di me stessa e ad essere più compassionevole verso gli altri. Non dò la vita per scontata e cerco di vivere ogni giorno al massimo ricordando che il domani non è una promessa».