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 2018  luglio 09 Lunedì calendario

Quell’allenatore monaco e orfano trasformatosi da colpevole a eroe

Sentendo per la prima volta l’incredibile storia dei 12 ragazzi intrappolati nella grotta Tham Luang, chiunque si è chiesto: ma come ci sono finiti? La risposta ce l’ha il tredicesimo componente del gruppo, il loro allenatore Ekkapong Chantawong. Ed è una risposta che lo tortura da allora, perché nella grotta dove sono rimasti sepolti vivi da quel maledetto 23 giugno ce li portati lui. Nonostante quel cartello all’entrata – in thailandese e in inglese – che intimi ai visitatori di non entrare da luglio a novembre, quando le piogge monsoniche possono allagare la grotta. C’era il sole. Ma quando Ekkapong e i suoi “cinghialotti” erano ormai ben dentro, il tempo è cambiato bruscamente. Loro se ne sono accorti solo quando l’acqua ha iniziato a salire, ma era ormai troppo tardi.
Incapaci di uscire, Ekkapong ha guidato il gruppo lungo l’unica strada percorribile, quella che portava ancora più in profondità. Quando hanno trovato il primo punto asciutto, erano ormai quattro chilometri all’interno. Gli snack e l’acqua che avevano bastavano per qualche ora, i telefoni non funzionavano, le torce avevano un’autonomia limitata. Dopodiché, il buio. E i sensi di colpa che riempivano Ekkapong, come l’acqua aveva riempito la grotta che sarebbe potuta diventare la loro tomba. Nella lettera che ha scritto ai genitori dei ragazzi, ha rivolto «le mie più profonde scuse».
La svolta
Ci si sarebbe potuti aspettare una messa in croce di Ekkapong, e nei primi giorni era difficile non scuotere la testa. Ma specie da quando i “cinghialotti” sono stati ritrovati vivi, in Thailandia l’opinione pubblica ha fatto diventare “coach Ek” quasi una figura mistica, il pilastro senza cui i ragazzi – tutti tra gli 11 e i 16 anni – non ce l’avrebbero fatta a sopravvivere per 222 ore pigiati su una sponda fangosa, nutrendosi solo con l’acqua che leccavano dalle pareti umide. I video che lo mostravano smunto e depresso, i dettagli emersi dai racconti dei Navy Seal, la rinuncia alla sua parte di cibo per darla ai suoi ragazzi l’hanno reso quasi un santo. Un disegno circolato sui social media thailandesi lo ritrae con un sorriso innocente da cartone animato giapponese, a gambe incrociate come un novello Buddha e con in grembo dodici cuccioli di cinghiale. In una società piena di fatalismo, c’è chi dice: era il suo destino. Gli stessi genitori, rispondendo alla sua lettera, l’hanno tranquillizzato: non è colpa tua, ora prenditi cura di loro.
Si dice che nella grotta maledetta “coach Ek” abbia insegnato la meditazione ai ragazzi, aumentando così la loro tolleranza all’incubo in cui erano immersi. Sono tecniche che lui ha imparato nei suoi anni da monaco, un’esperienza che ha abbandonato tre anni fa per accudire la nonna malata e aiutare la zia, continuando a dare una mano al tempio. I genitori non li ha da quando aveva dieci anni. Lo descrivono tutti come un ragazzo dal cuore d’oro, lavoratore, senza vizi. Una passione sola: il calcio, e i suoi ragazzi. Diciassette giorni fa li aveva portati in trappola. Oggi, come un vero capitano, sarà l’ultimo a uscire.