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 2018  luglio 09 Lunedì calendario

In morte di Carlo Vanzina

Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Quello dei Vanzina brothers resta il marchio di fabbrica di un cinema popolare, quasi sempre comico, spesso il cine panettone, con qualche polemica parentesi (Tre colonne in cronaca) e qualche malinconica eccezione come l’ottimo Il pranzo della domenica, rito di famiglia. 
Carlo Vanzina, morto ieri mattina a Roma dopo una lunga malattia, col fratello maggiore Enrico con cui era in simbiosi, osservava la realtà allo specchio deformante che denunciava senza virgolette: il cialtrone recitato da Christian De Sica è il prolungamento dell’italiano furbetto, il Gassmann del Sorpasso. Carlo Vanzina il mestiere del cinema lo aveva respirato in casa, figlio di Steno, grande commediante. Nacque il 13 marzo 1951 e debuttò a un anno in Totò e le donne del padre, poi giusto il tempo per frequentare il liceo francese Chateaubriand, una cosa proustiana, e fu l’assistente di Monicelli, grande amico e collega di papà con cui girò capolavori come Guardie e ladri. Nel ‘76, lancio in grande stile di Lucherini, debuttò alla regia con Pozzetto cameriere in Luna di miele in tre. 
Viene dall’epoca d’oro del nostro cinema, quando la società entrava nel trionfo della mediocrità, popolo di anti eroi per mitizzare il nuovo ricco borghese con le Vacanze di Natale (dall’83) a Cortina poi in luoghi esotici o con i flirt da spiaggia come nel filone inaugurato da Sapore di mare. I Vanzina hanno colmato il bisogno di ridere dopo la grande commedia d’autore, contribuendo a lanciare attori dal cabaret come I Gatti di Vicolo Miracoli e Calà. E poi l’esperienza con il terruncello Abatantuono, epoca di Fichissimi e Eccezzziunale… veramente, Isabella Ferrari e Boldi che poi farà coppia con De Sica ma che con i due fratelli Carlo ed Enrico girerà Yuppies. Finché con A spasso nel tempo (1996) parte la saga natalizia. 
Amante del cinema brillante, di gag ed equivoci più che di battuta, Vanzina tenta di mostrare i lati grotteschi e mostruosi di una realtà in evoluzione verso il trash e l’ignoranza, il Paese che si prepara all’era dei messaggini. Ma frequenta anche giallo e thriller con Sotto il vestito niente, colpi grossi fra modelle e vip nella Milano da bere anni 80 dove il colto ragazzo pariolino ha spesso lavorato, nel quadrilatero della moda di via Montenapoleone, centro di osservazione da cui è nata la maschera del cumenda sbruffone di Guido Nicheli. A spasso nel tempo e nello spazio, sognando la California, la Florida o South Kensington, dirigendo anche stranieri di fama (Everett, Modine, Bouquet, Degan) o ritornando nel Senato dell’antica Roma col successo di grana rossa SPQR. Qualunque spunto di finta o vera attualità era buono per imbastire il treno degli equivoci. 
Vanzina non ha tralasciato neppure quel po’ di romanticismo che resiste agli usi e costumi in Il cielo in una stanza e imponendo Raul Bova in Piccolo grande amore (‘93). Una produzione imponente per numero di titoli (una settantina oltre alle serie tv), certo non tutti riusciti e neppure tutti di successo, ma a corrente alternata con la foga di non tralasciare nulla, appuntando voci e volti, factory all’italiana, affamata di osservare le mutazioni anche più sgradevoli, un Dagospia in servizio permanente. 
Dopo l’era delle Vacanze di Natale, gli ultimi titoli sono Caccia al tesoro, Miami Beach, Non si ruba a casa dei ladri; lavorano tutti, da De Sica con Boldi, recuperando dopo tanta borghesia romana (Lisi, Proietti, Mattioli, Brignano e Le finte bionde), anche quella napoletana (Buccirosso e Salemme, presenti nel finale). Dirige Ghini, i nuovi golden boys Franceschini e Morelli, Ricky Memphis, Max Tortora, Jerry Calà, le belle signore Rocca, Autieri, Brilli, Foglietta, Marini, Bobulova, Suma, Falchi e l’altera Carol Alt, l’elenco infinito di una compagnia di rivista coerente, dedita a riconoscere il peggio del costume o rievocando un passato impossibile (Il ritorno del Monnezza con Amendola o Febbre da cavallo La Mandrakata con Proietti). L’Italia vista nelle sue radici grette ed esibizioniste, mentre si riposa a Fregene o ai Caraibi, chatta, tradisce, si diverte con le barzellette, organizza corruzione di bassa lega, pasticci, equivoci e imbrogli che vengono dalla lezione di Totò e Peppino: ma non drammatizziamo, è stata quasi sempre questione di corna.


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Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera

Adesso tutti diranno che se ne è andato l’inventore del cinepanettone, nato «fuoristagione» nel 1983 con Sapore di mare (prima proiezione il 17 febbraio) ma poi subito rientrato nei ranghi con Vacanze di Natale (il 22 dicembre dello stesso anno). Ma ridurlo a una sola tipologia sarebbe fare un grosso torto a questo prolificissimo regista che, in coppia col fratello sceneggiatore Enrico, ha cavalcato il cinema popolare italiano per quattro decenni — la prima regia fu Luna di miele in tre (1976), l’ultima Caccia al tesoro (2017) — coprendone quasi tutti i generi. Con esiti alterni, bisogna dirlo, a volte anticipando le svolte del Paese (Le finte bionde intercettava l’onda del qualunquismo e il culto dell’ego con bella lungimiranza sul ventennio berlusconiano. E per questo forse non fu un successo al botteghino), altre volte accontentandosi di mettere in farsa quello che arrivava dalle cronache dei giornali (S.P.Q.R. – 2000 e ½ anni fa anticipava Tangentopoli ai tempi di Poppea. Con una volgarità che ne decretò il successo al botteghino). Altre volte ancora cercando di recuperare quell’idea di «cinema medio», professionale e rispettoso dei gusti del pubblico, tradizionale ma anche piacevole e attento ai cambiamenti del costume, che l’Italia aveva perso con la fine della stagione d’oro della sua commedia e che Carlo (ed Enrico) Vanzina inseguivano. Lo si intuisce in film come I mitici – Colpo gobbo a Milano (dove si rifà allo spirito dei Soliti ignoti ma anche di Sette uomini d’oro), in Il pranzo della domenica che è probabilmente la loro miglior riuscita, nei tentativi di percorrere generi insoliti — il film di cappa e spada (La partita), il giallo (Tre colonne in cronaca) — nel piacere della rivisitazione (Febbre da cavallo – La mandrakata) fino ai recentissimi Non si ruba a casa dei ladri e Caccia al tesoro, dove la commedia si colora di una leggerezza insolita per il nostro cinema commerciale, capace di ritrovare un sguardo bonario ma non corrivo, venato di un moralismo non sgradevole. Certo, tra i 73 film (e tre mini-serie tv) che Carlo Vanzina ha diretto ci sono molti titoli dimenticati e dimenticabili, ma anche tantissimi volti che devono a lui e alla sua capacità di trarne il meglio il trampolino per la propria carriera: Abatantuono naturalmente, e poi Isabella Ferrari, Monica Bellucci, evidentemente Christian De Sica, e ancora Max Tortora, Ricky Memphis, Maurizio Mattioli. Anche Valeria Marini e Manuela Arcuri hanno trovato con lui dei piccoli momenti di gloria. E sicuramente ne dimentico. Probabilmente ha diretto troppi film, spesso anche due all’anno, e nella quantità il rischio della routine o della superficialità era sempre presente, eppure di fronte alle pochezze di certi giovani «autori» il cinema di Carlo Vanzina dimostra una qualità indubbia: non ha mai abdicato alla voglia di credere in quel prodotto medio che l’industria italiana da troppi anni non è più stata capace di coltivare. E che lui invece aveva sempre inseguito.