Il Messaggero, 8 luglio 2018
L’Austria e la fine dell’indipendenza
Stupisce quando poco sia cambiata Vienna, rispetto alla veduta del Bellotto. Se si escludono certi edifici moderni dietro palazzo Schwartzenberg e i grattacieli sul Danubio, la città ha lo stesso profilo che Eugenio di Savoia vedeva nel Settecento dai saloni del suo castello del Belvedere, oggi museo. Eppure, basta fare un giro per la città, passeggiare sul Ring, l’anello alberato sul tracciato delle antiche mura, spingersi nel quartiere dei Musei o andare verso il fiume entrando nel cuore della città medievale intorno alla cattedrale di Santo Stefano, per capire quanto la capitale degli Asburgo sia mutata. Qui il passato ha lasciato le sue tracce indelebili cent’anni dopo la fine dell’imperialregia monarchia per la sconfitta nella Grande guerra, e ottant’anni dopo l’annessione al Terzo Reich imposta da Hitler nel marzo 1938.
Così all’Hotel Imperial, il palazzo neoclassico tra il Musikverein e la Staatsoper, la memoria dell’Austria Felix si confonde con quella della tragedia del Novecento. Qui, lo scrittore Stefan Zweig era solito passare i pomeriggi sui divani della Coffee House, prima di prendere nel 1934 la via dell’esilio. E sempre qui nella primavera 1937 scenderà il grande Arturo Toscanini, per concordare la stagione estiva del Festival di Salisburgo. Tre anni prima era stato invitato dal cancelliere Schuschnigg a dirigere il Requiem di Verdi per commemorare in pompa magna il suo predecessore Dollfuss, assassinato dai nazisti. E sempre qui verrà ad acquartierarsi Adolf Hilter per celebrare l’Anschluss che mette fine all’indipendenza dell’Austria.
CROCI UNCINATEFurono giorni drammatici quelli del marzo 1938. Ma a Vienna la stragrande maggioranza della popolazione nemmeno se ne accorse, visto l’entusiasmo con cui festeggiò l’arrivo del Führer. Strade in festa, bande musicali, croci uncinate sulle facciate dei palazzi. Una foto dell’epoca mostra un comizio del Führer nell’Heldenplatz gremita da una folla in estasi. Solo una minoranza di liberali, democratici e ebrei, temendo il peggio, soffriva in silenzio.
Zweig ormai viveva a Londra da anni. Per sfuggire la minaccia del presente, si dedicava alla biografia di un’eroina vittima del passato come Maria Antonietta, ultima regina di Francia, detronizzata dal Terrore. Per un pacifista come lui che aveva sempre puntato sull’umanesimo e sull’Europa l’avvento di Hitler era un fallimento cocente. E dopo le prime intimidazioni aveva venduto la sua dimora sul Kapuzinenberg a Salisburgo e aveva deciso di emigrare. «Bisogna essere cresciuti a Vienna per capire la gigantesca vastità dell’assassinio di massa che è iniziato», scriverà nell’estate di 80 anni fa al fratello Arnold. Ma intanto la sua vita inaspriva con la morte della vecchia madre, rimasta sola nella casa di Garnisongasse e col dissidio con la moglie Friederike: «Non posso perdonarle di avermi reso questi quattro anni di hitlerismi ancora più terribili per la sua resistenza, per la sua folie autrichienne, mentre io ho capito subito che l’Austria era solo una colonia mussoliniana e che tutto sarebbe crollato appena il padrone avrebbe abbandonato il suo giocattolo».
Ancora peggio stava Hermann Broch, altro grande scrittore ebreo, anche lui figlio di ricchi industriali votato alla letteratura. «Il mio amico Broch è in prigione, è di costituzione fragile e malata, non si può immaginare uomo più marginale e più puro nel suo comportamento pubblico a chi tocca adesso?». Arrestato il 12 marzo, con la prima raffica di arresti che in due giorni colpì 70.000 persone, Broch restò in carcere poche settimane, prima di essere liberato grazie all’intervento di James Joyce, Albert Einstein e Thomas Mann, e salpare con un visto per l’America ai primi di ottobre. In carcere continuò a scrivere il suo secondo grande romanzo, La Morte di Virgilio, l’epopea sulle ultime ore del poeta romano, tentato di dare l’Eneide alle fiamme perché insoddisfatto della propria missione. E mai la disperazione europea trovò voce più pura.
L’UMILIAZIONEArrestati, perseguitati, umiliati, a Vienna gli ebrei vengono costretti a consegnare cassette di sicurezza e libretti di risparmio. Il sindaco rassicura la stampa straniera: «I pogrom sono eccessi di zelo o vendette personali». Ma l’umiliazione è insopportabile: per la strada donne ebree sono costrette a sputarsi a vicenda, vecchi notabili si improvvisano lustrascarpe, il rabbino capo chinato a quattro zampe si mette a lavare i marciapiedi con un acido urticante, mentre le SA gli versano in testa un secchio d’acqua. Non pochi al disonore preferiscono la morte come il professor Knopfelmacher, pediatra di fama mondiale, che prima di uccidersi scriverà: «Ho salvato la vita a 60 mila bambini, e ora devo mettere fine alla mia».
Mentre Robert Musil dopo la fuga del suo editore Bermann Fischer e il divieto di vendere i suoi libri, si rifugia con la moglie a Zurigo, Franz Werfel, altro scrittore ebreo, è a Capri con la moglie Alma Mahler, la vedova del grande compositore, che vede ribattezzare la Gustav Mahler Strasse in Meistersinger Strasse. Anche Werfel, sebbene cittadino ceco, è nel mirino dei nazisti in quanto amico del deposto cancelliere Schuschnigg. Per questo resta prudentemente all’estero, Zurigo, Parigi, Amsterdam, Londra e Saint Germain-en Laye, dove ha un infarto. A fine giugno, i Werfel partono per la Provenza. Alma ha trovato una vecchia torre di guardia a Sanary su Mer, dove vive una colonia di scrittori in esilio. Resteranno lì quasi due anni, facendo la spola con Parigi, finché nel giugno 1940, la capitolazione della Francia e l’occupazione tedesca spingeranno anche loro verso un rocambolesco esilio negli Stati Uniti.