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 2018  luglio 08 Domenica calendario

Dell’Utri è uscito di galera

È una buona cosa che Marcello Dell’Utri da ieri sia fuori dal carcere, e possa curarsi a casa del figlio, tenere a bada meglio il cuore sfibrato, andare e venire dalle terapie ospedaliere senza passare dalle sbarre di Rebibbia alla ossessiva incolpevole presenza degli occhi di agenti, anche mentre si fa palpare dai medici. Dunque, soddisfazione per una decisione finalmente «legale» del Tribunale di sorveglianza che ha stabilito «il differimento della pena» per un uomo anziano (77 anni) e «a rischio di morte improvvisa». Una decisione semplicemente legale, non compassionevole o misericordiosa. La compassione è un sentimento che si può avere, oppure no. Il giudice potrebbe persino odiare Dell’Utri: non deve applicare i suoi sentimenti, ma la legge. E la legge esigeva che Dell’Utri fosse messo in condizioni di salvarsi la vita, sulla base di due articoli della Costituzione. Il 27°: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». E il 32°: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo». TORTURA FINO ALLA MORTE? Qual è il problema allora, in merito a questo caso, visto che la legge si è fatta largo? Il problema c’è, anzi ci sono, perché sono almeno due. 1 -Dell’Utri andava tolto dalla gabbia parecchio tempo fa. Già lo scorso anno persino i periti del pubblico ministero avevano riconosciuto l’incompatibilità assoluta del co-fondatore di Forza Italia con il regime carcerario. Ovvio: tutti stanno male, senza libertà. Per Marcello equivaleva a darlo in pasto a un cancro famelico mentre il suo cuore si stava spaccando. Una crudeltà a sangue freddo. Una illegalità, soprattutto. Il pm però non si era fidato dei suoi «suoi» medici, due luminari. Un po’ come i no-vax che credono al blog di Grillo invece che agli scienziati. E aveva spinto il giudice verso il no (vedi Libero, 6 dicembre 2017). Risultato: la proroga di una condizione che la moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti, ha definito ieri con una parola: tortura! Suo marito – ha detto commentando la sentenza finalmente favorevole – desiderava morire subito, piuttosto che questo protrarsi martellante della disumanità di Stato. Amedeo Laboccetta tutte le settimane, per mesi, ha inviato invano alle agenzie di stampa e alle televisioni il bollettino delle torture. Non solo lui. Chiunque ha incontrato Dell’Utri, non ha potuto far altro che denunciare questo strazio inflitto da uno Stato che contraddice la sua legge fondamentale per mano di giudici certo in buona fede, ma che di fatto si innalzano sopra le norme, spregiando il giudizio di illustri clinici, oltre i confini della civiltà. Tutto questo fino a ieri. Lo sappiamo che la condanna di Dell’Utri assicura il suo «concorso esterno» alla mafia. Un reato inventato. Ma oggi non discutiamo di questo. I diritti umani sono i diritti persino di Hitler e Stalin. Dunque, che la tortura si sia interrotta, non toglie il fatto che questa tortura è stata scientemente tollerata e colpevolmente tollerata. Perché? Mah. Finché, giunta al livello di esasperazione fino a rendere probabile il decesso in cella di un uomo abbandonato, è assai plausibile che più del richiamo degli articoli della Costituzione, più della pietà per il vecchio carcerato ammalato, sia prevalsa la paura di trovarsi un morto in mano. Diciamolo. Nessuno dubita dell’umanità di nessuno. Ma è anche molto umano cercare di evitare il fardello di un cadavere e le unghie di una vedova. La gioia per una ordinanza giusta, getta perciò una strana luce su quelle precedenti. Indicare il «rischio di morte improvvisa», come motivazione della scarcerazione, implica che se invece la Bestia si poteva presumere desse il tempo di chiamare i parenti al capezzale, si poteva insistere con il tormento? Significa che c’è un livello di tortura tollerabile? Che la tutela della salute (art 32) diventa un dovere dello Stato verso i reclusi solo quando ormai resta poco da vivere? 2 – Il secondo problema non ci sfugge, ed è serio. Perché Dell’Utri sì e altri carcerati no? Non è anch’essa una forma di giustizia che perpetua la disuguaglianza? Certo che sì. Ma così va il mondo. La famiglia Dell’Utri ha potuto permettersi fior di avvocati e di periti. Seppure con la sorprendente indifferenza di Mediaset, Marcello ha avuto qualche sostegno mediatico (ma anche un ancor più intenso rancore di alcuni giornali). Dell’Utri e i suoi familiari sono i primi a saperlo, e hanno cercato di farsi portavoce dei molti casi simili. E che la loro vicenda apra una breccia per tutti. Per questo si sono fatti eco della battaglia per alleviare la condizione, sia dei reclusi sia degli agenti penitenziari, condotta dal Partito radicale, e specialmente da Rita Bernardini la quale porta avanti con formidabile energia l’eredità di Pannella. Ripeto, il mondo non è così rotondo come si dice. I casi che implicano nomi importanti pesano di più. Sia in bene, sia in male. Stavolta si spera nel meglio.
GUARDA CASO... (Parentesi personale. In negativo, a proposito di gente di grido in carcere, ne so qualcosa sulla mia trascurabile pelle. Nei cinque anni vissuti da deputato, la cosa che mi ha fatto sentire qualcosa di più di uno schiaccia-bottoni è stato il dovere repubblicano e cristiano di visitare i carcerati, che la legge (art. 67 o.p.) attribuisce ai parlamentari. Sono stato in quasi tutte le prigioni italiane, centinaia di visite, dialogando con migliaia di detenuti. Ho imparato molto. Anche che la magistratura ritiene le galere un loro regno, dove non vuole che nessuno ci metta becco. Avevo adottato questo metodo. Mi facevo accompagnare come collaboratore negli istituti di pena da chi ritenessi più utile per far star meglio reclusi in sofferenza. Su, diciamo, mille episodi tutti identici, mi hanno incriminato due volte: avrei mentito sulla qualifica di mio aiutante di chi portavo con me quando sono stato in cella 1) da Lele Mora a Opera, 2) da Salvatore Cuffaro a Rebibbia. Una condanna a otto mesi l’ho avuta nel primo caso, non ancora definitiva, e se non sono finito in carcere per due anni e otto mesi lo devo ai miei avvocati, Coppi, Fares e Massimo Rossi; nel secondo, sono al processo di primo grado. Delle visite agli altri 998 pinco pallino non importava nulla a nessun pm, per i due tizi famosi è venuto giù un Niagara). riproduzione riservata LA CARRIERA Marcello Dell’Utri, palermitano, 77 anni, è stato uno stretto collaboratore di Silvio Berlusconi fin dagli anni Settanta, prima con Publitalia e poi con Fininvest. È stato tra i fondatori di Forza Italia, nel 1996 è stato eletto deputato, nel 1999 viene eletto europarlamentare e nel 2001 senatore
LE INCHIESTE Le indagini su Dell’Utri iniziano nel 1994, l’anno del suo ingresso in politica. Viene incriminato nel 1994 e nel 2004, il Tribunale di Palermo lo condanna a nove anni di reclusione con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2010 la Corte d’appello di Palermo lo condanna a sette anni di carcere per i fatti accaduti sino al 1992. Tuttavia, nel 2012 la Cassazione annulla la sentenza. Tornato in Appello, Dell’Utri nel 2014 viene nuovamente condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa IL CARCERE Dopo un periodo di latitanza, nel 2014 Dell’Utri viene catturato a Beirut. Estradato in Italia viene incarcerato prima a Parma e poi a Rebibbia. Ieri la concessione dei domiciliari per motivi di salute. Il 28 settembre si terrà una nuova udienza per decidere se dovrà tornare in cella