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 2018  luglio 08 Domenica calendario

Mezzo secolo di immigrazioni. Così è nata questa Torino




Per raccontare cinquant’anni di Torino possono bastare ottanta fotografie se della città ci interessano le persone che la abitano, gli uomini e le donne che via via, con fatica, passi avanti e indietro, diventano appunto «la città». E se dietro all’obiettivo, per tutto quel tempo, ad osservare è rimasto lo stesso fotografo. La mostra «Migreye. Un occhio aperto sulle migrazioni», appena inaugurata a Palazzo Lascaris, in via Alfieri 15, visitabile fino al 7 settembre (lunedì-venerdì, ore 9-17), è il racconto dell’evoluzione sociale della nostra città interpretato da Mauro Raffini, 71 anni trascorsi tra Torino e il mondo, tra fotografia sociale («Che non permette di vivere») e industriale/commerciale («Spesso sotto forma di racconto»), uno che del suo lavoro dice: «Ho sempre cercato di mettere al centro della fotografia la condizione umana».
Tre tappe 
Il racconto è suddiviso in tre sezioni, le tre ultime tappe del fenomeno migratorio che dall’inizio dell’industrializzazione non ha mai cessato di «sconvolgere» la città. Un viaggio a ritroso che parte dai volti a colori e in primissimo piano dei migranti che oggi vivono nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), mescolati a quelli dei mediatori culturali che li aiutano ad ambientarsi, a capire dove si trovano (la mostra è in collaborazione con l’Ammi, Associazione multietnica mediatori interculturali). E questo è già un segno del cammino perché tra i mediatori ci sono tanti giovani di seconda generazione.
«Migreye», coglie poi volti e momenti di una stagione che oggi sembra già lontana, l’immigrazione degli Anni 90 fino ai primi passi del nuovo millennio: gli «extracomunitari», maghrebini, tunisini, egiziani, albanesi – cinquemila su una sola nave -, i romeni, ancora fuori dall’Unione europea. Raffini coglie il mood del tempo nei volti orientali, velati, di Porta Palazzo, nella reazione dei «nuovi cittadini» alle proteste anti-immigrati dei residenti di San Salvario, nella preghiera islamica in piazza Castello, nelle povere stanze umide del centro storico affittate ancora una volta agli ultimi arrivati prima di diventare condomini di lusso e charme.
I primi
Il terzo capitolo è storia tutta italiana, immagini difficili, che oggi entrano nella pelle più di allora. È la città che cresce all’improvviso, gli scatti che ritraggono dolore, povertà, gli effetti del pregiudizio, e comunque la speranza di un futuro migliore: «Gli ultimi arrivati» degli Anni 60 e 70, ultimi dopo altri «ultimi» arrivati dei decenni precedenti. La scelta è caduta su «treni del sole» e le valigie di cartone a Porta Nuova, bambini sullo sfondo di periferie solo abbozzate, interni di miseria. «Ho incominciato a fotografare sul serio nel ’69, quando già c’era stata la saldatura tra operai del Nord e operai del Sud per i diritti sindacali... La parola che riassume? Direi “cambiamento”. Il cambiamento è inarrestabile», dice Raffini, che ha girato il mondo, che è un torinese nato per caso a Cuneo da una famiglia ossolana. La città è un’opera in progress, gli artisti siamo noi tutti.