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 2018  luglio 08 Domenica calendario

1918, l’altra “invasione”


Europa, autunno del 1918: per milioni di uomini le parole sembravano aver disertato il senso che si supponeva ricoprissero. Impossibile ravvicinarli. L’unica cosa che sembrava ancora praticabile nella cosiddetta «situazione mondiale» era ascoltare il grido dei morti. Sulle strade del continente uscito da quella che doveva essere – grottesca illusione! – l’ultima delle guerre, migliaia di uomini donne bambini camminavano senza meta. La gente li osservava in disperato silenzio, nessuno parlava, nessuno salutava, i loro volti erano gli stessi dei fuggiaschi, tristi e sgomenti, in un certo senso feriti, pieni di vergogna. I profughi sulle strade supplicavano un passaggio, come sbandati, come vagabondi, ai convogli militari che riportano a casa i soldati. Sembravano irrimediabilmente destinati a sprofondare nel nulla. Sì, erano migranti, profughi, «apolidi» come si diceva con una nuova sinistra parola che sembrava uscita anch’essa dagli orrori della guerra. E che oggi abbiamo sostituito con quella di clandestini.
Una lezione dagli Anni Venti
Propagandisti di uno sciovinismo sovranista e fanfarone ci hanno fatto credere che i migranti, «l’invasione», sono una novità del terzo millennio per imporci le spicce ricette della loro demagogia «popolare» stolta e disonesta. Cento anni fa l’Europa dovette affrontare una crisi dei migranti numericamente molto più grande di quella di oggi. E nonostante i mezzi molto più limitati seppe risolverla. Frughiamo dunque nel mondo degli Anni Venti del Novecento, affondato nel tempo, ma che trova ancora varchi per mandare su come bolle utili lezioni. 
Più di tre milioni di persone, sì tre milioni non è un refuso, dunque, sono in fuga: cercano una casa, cibo, protezione. Perché la guerra non è finita: si combatte in Russia la feroce guerra civile tra bianchi e rossi, s’inizia la resa dei conti tra sovietici e polacchi, greci e turchi si scannano per quella che un tempo si chiamava Asia Minore. Quattro imperi – tedesco, austriaco, russo e ottomano – sono scomparsi nel nulla, sono nati nuovi Stati e nuove tensioni etniche, la sciagurata pace senza pace di Versailles obbliga ognuno a trasferirsi nel Paese di cui ha adottato la nazionalità.
Miseria e guerra, e persone che pensano di avere talmente poco per cui vivere che solo la sensazione di avere in fondo ancor meno per cui morire li aiuta a tenerli in vita: non è qualcosa che vi è famigliare? I profughi, i migranti, allora e oggi, li riconoscete da come camminano, dalle spalle cadenti, dalla teste ciondolanti per la stanchezza. Popolo in fuga da qualcosa che non ha provocato, vittima inconsapevole, come gli scampati alla violenza di un fiume. La cosa più concreta e urgente che c’è: uomini che soffrono, che cercano quaggiù una larva di paradiso.
I gruppi più numerosi erano i russi, sfuggiti alla avanzata dei bolscevichi dalla Crimea nella regione di Costantinopoli e poi, a partire dal 1921, verso l’Europa del Sud e in parte verso il Brasile per lavorare nelle piantagioni di caffè. Un’altra colonna muove verso l’Europa centrale e la Francia, rivoli si fermano in Finlandia e in Olanda.
Scambio di popolazioni
Poi ci sono 700 mila armeni: gli scampati del primo genocidio del secolo, come i siriani di oggi divisi in sudici accampamenti tra Siria, Libano, Egitto. L’erede dell’impero che li ha massacrati, Kemal Atatürk, ha sequestrato i loro beni e si rifiuta di considerarli turchi. Greci e turchi, in tutto quasi due milioni, si incrociano sulle stesse strade, marciano in direzioni opposte, intontiti dalla fatica su carri tirati da buoi, non si guardano, l’odio sembra far vibrare l’aria gonfia di polvere. Uno scambio di popolazioni dopo la guerra, non sarà l’ultima volta nel secolo infelice. La Grecia, in qualche mese, deve far posto all’equivalente del 20% della sua popolazione. Foto ingiallite ci mostrano i campi dei rifugiati: espongono poveri stracci al sole davanti alle colonne del Partenone, ragazze magre cuciono senza alzare gli occhi. La gente che non ha più diritto di avere dei diritti.
Sbrighiamoci a dirlo: negli Anni Venti a questa sofferenza tese la mano il movimento umanitario che passava proprio allora dalla carità religiosa alla moderna filantropia laica. Era l’avvento, ancora fragile, della diplomazia umanitaria e di un embrione di diritto di ingerenza, la responsabilità di proteggere. I documentari e le fotografie della Croce Rossa e delle associazioni di soccorso rendevano visibili i profughi e il loro dramma. Che l’abitudine non attempava ancora in risoluta e sdegnosa indifferenza. Nacque allora «la sofferenza a distanza»: a Parigi, a Roma, a New York ci si commuoveva per i campi dei rifugiati in Medio Oriente o per i profughi dell’Europa centrale. Cent’anni dopo perché quel subbuglio del cuore è diventato impossibile per il nostro rancore di fortunati?
E poi i migranti d’Europa incontrarono un uomo: Fridtjof Nansen. Nel 1921 era stato nominato dalla Società delle Nazioni, l’Onu dell’epoca, alto commissario per i rifugiati. Lo guardiamo, questo norvegese, in una foto del 1922, nel campo dei profughi greci a Rodosto in Turchia. Attorno a lui bambini cenciosi seduti su sacchi di farina, due ufficiali inglesi, un cane. Tutto sembra sospeso, come nell’attesa di un miracolo. È un uomo anziano ma dritto come un ulivo, elegante, grandi baffi, occhi che promettono fraterna mitezza. Un uomo già famoso, un esploratore (al debutto del Novecento era ancora un mestiere!). Su una rompighiaccio aveva raggiunto tra i primi il Polo Nord e il libro Farthest North’ in cui aveva narrato l’epopea di quel viaggio aveva venduto milioni di copie in tutto il mondo. 
Non per questo l’avevano scelto. Ma perché aveva organizzato con successo il rimpatrio di quasi 500 mila prigionieri di guerra. Per i profughi Nansen inventò il certificato, il passaporto, che porta il suo nome: attestato di identità e salvacondotto di viaggio emesso dalla Società delle Nazioni, e consegnato ai rifugiati. Armeni, russi, siro-caldei per la prima volta furono posti sotto la protezione di una autorità internazionale. Centinaia di migliaia di persone devono la vita a quel pezzo di carta, una buona novella, un vangelo senza ira e senza chiodi.