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 2018  luglio 08 Domenica calendario

Intervista a Vittorio Zucconi

 C’è un’ansia che a volte bussa alla mente di Vittorio Zucconi. Non me l’aspetto. La vedo serpeggiare nel suo nuovo libro ( Il lato fresco del cuscino, Feltrinelli) cosparso di piccole memorie: l’infanzia, le vacanze, la scuola, le cose perdute, gli oggetti a lui cari. Antiquariato dell’anima: la Lettera 22, la prima automobile, il primo registratore, la radiolina a transistor, il giradischi. Una malinconia sorgiva irrora la scrittura e recita piccole e nascoste verità. Non sembra neanche lui, mentre lo guardo accendersi l’ennesima sigaretta: «Che cos’è quest’ansia? Forse fragilità da troppa esposizione, dice, e poi soffro di claustrofobia, aggiunge. In questo mondo che ha perso i confini tutto è maledettamente stretto». È deluso. Ha smesso da tempo di prendere sul serio la serietà della storia e degli uomini che la fanno. C’è un acuto rimpianto che mi sorprende mentre evoca l’America di ieri e di oggi, dove lui ha vissuto e vive. È come se ne parlasse dalla distanza di qualche secolo. Senza intransigenza e rabbia ma con fatica e delusione: «Nessuno, nemmeno il padreterno, se lo aspettava», dice con lieve sussulto della linea della pancia.Sei stupito per come sta andando il mondo?«Tu non lo saresti? Il presente comincia a farmi paura».Per questo ti sei ritirato nelle cose di un tempo?«Sono più stabili ed emotivamente più interessanti di tante persone che oggi ci guidano».Non hai l’aria del collezionista.«Sono un conservazionista: odio buttare via le cose. Tengo ancora giacche di quattro o cinque taglie più piccole che indossavo da giovane!».Com’eri da giovane?«Sicuramente più magro, determinato e aggiungo molto fortunato. Ho iniziato a lavorare a 19 anni».Non sei stato un bamboccione.«Non era prevista una categoria sociale del genere».Fin da subito giornalista?«Fin dal liceo, al Parini con La zanzara ».C’entra qualcosa che tuo padre, Guglielmo, era giornalista?«I padri c’entrano sempre. Anche se lui voleva fortemente che mi tenessi alla larga da questo mestiere».Cosa temeva che ti accadesse?«Non lo so, quando presi la tessera da professionista mi regalò un cucchiaio d’argento».Perché?«Disse che avrei ingoiato molta merda, ma almeno lo avrei fatto con un cucchiaio di metallo prezioso».Era spiritoso tuo padre?«Molto, aveva fatto il comico, e per anni collaborò alla Rai scrivendo testi insieme al suo amico Umberto Simonetta».Testi di che genere?«Teatro leggero, varietà. Allora la Rai vietava che si parlasse a braccio. Noi abitavamo in una semiperiferia di Milano. Umberto veniva quasi tutte le sere. Uno spettacolo vedere quest’uomo divorato da una pigrizia mostruosa spendere il suo talento di scrittore».Chi frequentava la vostra casa?«Dario Fo veniva spesso. Mio padre e Umberto gli scrivevano gli sketch che lui provava all’istante. Non ho mai visto uno più bravo e affamato di lui. Un giorno venne a pranzo Mike Bongiorno».

8/7/2018ROBINSONIl mitico Mike?«Proprio lui. La mamma preparò per l’occasione i tortellini che di solito si facevano la domenica. Guerrina, la nostra domestica, come fosse a una radiocronaca si mise in balcone raccontando minuto per minuto ai nostri vicini cosa faceva Mike. Esilarante»
.Come è stato il tuo rapporto con i libri?«Di devozione, almeno all’inizio. Erano come oggetti incantati collocati negli scaffali di casa. A volte fantasticavo, soprattutto su una collana di libri, credo fosse della Mondadori, rivestiti in similpelle. Guardavo i dorsi con i nomi degli scrittori stampati in oro: Faulkner, Hemingway, Dos Passos, Fitzgerald».Preparavi la tua America?«Quei romanzi aiutavano a capire quanto fosse complesso quel Paese, ma poi dovevi viverci per coglierne tutte le sfumature».Il tuo primo sbarco in America?«Durante il caso Watergate. Non avevo ancora trent’anni. Terrorizzato dalla mia inadeguatezza, stetti malissimo».Non hai l’aria di quello che si spaventa facilmente.«Ancora adesso giro il mondo con una borsa di medicine. Farmaci di tutti i tipi, adatti per ogni sintomo. Anche il più fantasioso. È così. Mai fidarsi delle apparenze».Come ti definiresti?«Un mix di incoscienza e ansia».Ti accade anche quando scrivi?«Se scrivo vado in una specie di trance. Mi dimentico di tutto».Qualche lingua malevola dice che a volte ti dimentichi anche dei fatti.«Nel senso?»Nel senso che inventi. Che prediligi l’esser scrittore all’esser giornalista.«Le due cose non sono necessariamente in contrasto».Spiegati.«Ho sempre pensato, fin dai primi passi nella professione, che ogni articolo dovesse avere una forte impronta narrativa. Non perché devi abbellire ma in quanto la tua conoscenza dei fatti è limitata, parziale. Non ho mai inventato, né dato notizie false. Ho sceneggiato le mie storie, ma su fatti veri e verificabili».Ti sei dato dei modelli?«No, però ho ammirato alcuni colleghi. Ora che ci penso mi fai venire in mente un episodio. Era da poco iniziata la prima guerra del Golfo. Partii in aereo per Kuwait City. Per una serie di imprevisti mi fermai la notte nell’hotel dell’aeroporto. Seduta nella hall c’era Oriana Fallaci. Chiaramente infastidita di vedermi».Perché?«Non sarebbe stata la prima giornalista italiana a entrare a Kuwait City. Era lì, con l’elmetto in testa, che attendeva da ore di salire a bordo del prossimo Hercules C-130».Vi parlaste?«Nel frattempo si era aggiunto un mio amico. Scambiammo qualche battuta. Poi rivolgendosi al mio amico: non ti fare incantare, Zucconi è solo uno dei miei tanti imitatori, e neppure dei migliori!».Come reagisti?«Feci finta di nulla. Sfogò il suo sarcasmo e poi tacque».Che giudizio dai di lei?«Massima ammirazione per il mestiere, ma come donna era insopportabile».Forse era una donna sola.«Voleva esserlo. Aveva contribuito talmente a creare il mito attorno alla propria persona, che era letteralmente terrorizzata che si scoprisse la sua vulnerabilità».Ma tu la imitavi?«Figurati. Tutto quello che lei raccontava – eventi, personaggi, situazioni – era la proiezione mastodontica del suo ego. Bravissima, indubbiamente. Ma non c’era spazio per il dubbio, per l’incertezza, la sfumatura, per il punto di vista. La sua visione del mondo era totalizzante. Come giornalista ho imparato a privilegiare i dettagli».Cosa offrono in più?«Ti racconto un altro episodio che riguarda Alberto Cavallari, grandissimo inviato. Era morto Paolo VI, fui incaricato di scrivere il pezzo per il mio giornale, La Stampa. Il giorno dopo confrontai il mio articolo con quello che Cavallari aveva scritto per il Corriere » .Cosa concludesti?«Feci un pezzo molto descrittivo, lui invece visitò la tomba. Restai di stucco perché quell’articolo partiva da un dettaglio ed era infinitamente migliore del mio. Un dettaglio può fare la differenza».Hai imparato la lezione.«Al punto che, come un omaggio segreto, quando ci furono i funerali di Papa Wojtyla, mi colpì la giornata particolarmente ventosa che scompigliava le porpore cardinalizie. Pensai che quella era l’immagine della Roma dei Borgia. Il vento lo avvertivano tutti. Ma ero stato il solo a raccontare che con quel vento soffiava qualcosa di barocco».Sei anche uno scrittore prolifico.«Il primo libro che scrissi fu un fiasco. Ci stetti malissimo. Venni fuori da quella crisi attraverso una serie di reportage sugli Usa. Poi li riscrissi e li raccolsi per un nuovo libro sull’America che andò benissimo».Cosa vuoi dimostrare con i libri che non hai già dimostrato con gli articoli?«Forse l’illusione che il libro ti strappi da quella precarietà cui il giornalismo ti condanna. Di noi ci si dimentica in fretta».Forse dimenticano in fretta anche i libri che si scrivono.«A volte mi chiedo chi legge più i libri di Montanelli?».Che risposta ti sei dato?«C’è vanità e bisogno di rispettabilità nel costruirsi il mestiere parallelo di scrittore. Per farti un paragone forse eccessivo, credo che i libri dei giornalisti somiglino a quelle profumerie che le puttane comprano quando giunte a una certa età cambiano mestiere. Oppure sono le lauree che non hanno mai preso».Tu sei laureato?«Con un certo orgoglio sì. Presi una laurea in storia moderna. In ritardo ma con il massimo dei voti. Ricordo l’apprensione di mia madre convinta che mai sarei riuscito e che avrei consumato la mia vita fra tavoli di poker e corse dei cavalli».Avresti fatto lo storico?«Non lo so, ma non credo sarei che stato tagliato per la vita accademica. Però quella scelta universitaria mi ha un po’ salvato l’anima».In che senso?«Si è detto molto, anche con toni dispregiativi, che noi giornalisti scriviamo la minuta della storia; che i nostri libri mancano di respiro e che viviamo con l’incubo della deadline, per cui meglio un pezzo mediocre che arriva oggi piuttosto che lo straordinario articolo del giorno dopo. Aver studiato storia diciamo che ha arricchito il mio ordine mentale. Ha attenuato quell’incubo. Il che non toglie che errori e infortuni siano sempre in agguato».A proposito di “infortuni” ci fu l’accusa da parte dello staff di Eltsin che ti inventasti un articolo sull’allora presidente della Russia.«Tu accennavi prima al fatto che io romanzo un po’ i miei servizi. È un rilievo che ci può stare e te ne ho spiegato le ragioni. Ma la storia di Eltsin è autentica al cento per cento».Cosa li fece infuriare?«Come puoi immaginare non era certo un articolo favorevole a lui. Sostennero che mi ero inventato dei dettagli. Scrissi che Eltsin beveva whisky a rotta di collo nei bicchierini di carta degli alberghi. Ma come facevo a saperlo? Fui accusato di lavorare per il Kgb. La faccenda stava prendendo un tono spaventosamente surreale».Come eri venuto a conoscenza di quei dettagli?«Fu l’interprete di Eltsin, che era mia amica, a fornirmi una serie di particolari credibili. Allora non rivelai la fonte ma ora non c’è più e nessuno può perseguitarla. Era una donna straordinaria, inorridita dalla corruzione che stava dilagando».Come vivesti quella storia?«Con rabbia. Davanti a Scalfari diedi le dimissioni. Lui le respinse. Quell’episodio fu il Nadir della mia professione».E lo Zenit?«Quando con i miei articoli contribuii a spedire in galera un paio di generali coinvolti nello scandalo della Lockheed».Ti piace realizzare gli scoop?«Non sono un giornalista che va a caccia di scoop. Perché lo scoop è un veleno tossico che distrugge lentamente. Il rischio poi è che diventi il passacarte di qualcuno. Giorgio Bocca chiamava certi documenti che arrivavano nelle mani del giornalista “le carte del diavolo”. La domanda è: quando ce le hai che fai, le rifiuti?».Hai mai avuto l’ambizione di fare il direttore?«A un certo punto della mia vita professionale ti confesso che mi sarebbe piaciuto e ci sono state occasioni in cui quel ruolo mi fu offerto. Ma temo di non avere il temperamento. O sei come Scalfari dotato di un carisma assoluto oppure devi ricorrere a una autodisciplina altrettanto assoluta».Accennavi prima a una certa ansia.«L’età non l’attenua. A volte vivo nel terrore di scoprire che non sono così bravo come credo di essere. In certi momenti ripenso a mio padre che quando cominciò a lodare i miei articoli capii che stava morendo. Aborriva certe smancerie e solo nella prossimità della morte vinse certe reticenze. In tutti i miei anni di professione mi sono accorto di non saper fare altro. Non ho hobby, non ho altri interessi al di là della scrittura. Scrivo come parlo, ho una scorrevolezza colloquiale e ho il terrore dei luoghi comuni. Poi, un bel giorno, arriverà la famosa Signora che dirà: Zucconi, adesso basta rompere i coglioni».