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 2018  luglio 08 Domenica calendario

Kamasi Washington, l’uomo che trasforma il jazz


Kamasi Washington (Usa, 1981) sta trasformando in modo radicale il ruolo della musica jazz nel XXI secolo. Sassofonista formatosi alla prestigiosa Accademia di Musica della Hamilton High School di Los Angeles, Washington ha prestato il suo sound all’opera di artisti come Snoop Dogg e Kendrick Lamar, contribuendo a forgiare un certo grado di parentela tra jazz e hip hop. In attesa del suo prossimo album, Hans Ulrich Obrist ha incontrato Washington; insieme, i due hanno ripercorso alcune delle “epifanie” che hanno dato forma al timbro e al colore inconfondibile di questo musicista.Parliamo del tuo percorso, di come sei arrivato alla musica. Sei un musicista di seconda generazione, sei sempre stato immerso nella musica.«In realtà non ricordo quando ho iniziato a fare musica. Da bambino ho cominciato con la batteria, poi sono passato al piano, poi al clarinetto; sugli undici anni mi sono appassionato al jazz, ed è lì che la musica è diventata un fatto personale, non solo una roba che in casa facevano tutti. Quando ho iniziato col sassofono – intorno ai dodici anni – è stato come se musicalmente avessi trovato la mia voce, e a quel punto ho capito che volevo fare sul serio».Los Angeles è un contesto pazzesco per l’arte e per la musica. Per te ha contato molto il quartiere di Leimert Park.«Leimert Park è un crocevia culturale. Si trova nella zona detta South Central. Se senti i notiziari ti viene da pensare che sia una zona di guerra o quasi... io sono cresciuto lì. Ricordo il giorno che mio padre mi portò a Leimert Park per il mio primo concerto: c’era Pharaoh Sanders che suonava in un piccolo club, il World Stage, che allora era di Billy Higgins. Rimasi stregato; c’erano percussionisti sull’erba, gente che dipingeva all’aperto, poeti, rapper... Da quel momento in poi non mi sono più mosso di là: ci stavo dalle tre del pomeriggio alle tre di notte, passavo il tempo ad assorbire musica».Ti ha influenzato moltissimo anche un libro che ti regalarono da studente: l’“Autobiografia di Malcolm X” (1965). Perché è stato così importante?«Sono cresciuto in una zona che era vista come malfamata, dove tutto ci comunicava un’idea negativa di quello che eravamo. E sebbene abbia avuto dei genitori fantastici anch’io avevo iniziato a vedermi come qualcosa che non ero. Poi un giorno nella mia scuola elementare sono arrivati questi ragazzi, poco più che ventenni, che si erano dati il compito di modificare quella visione. Ci hanno regalato l’Autobiografia di Malcolm X. Leggere della sua vita e di come, in effetti, lui la perse nel tentativo di diffondere il suo messaggio, cambiò tutta la mia prospettiva rispetto a chi sono».C’è un libro, c’è un mentore, c’è un luogo, e c’è anche un disco: “Transition” di John Coltrane ( 1970), che per te divenne una specie di ossessione. Tuo padre aveva cercato di farti affezionare a quel disco da quando eri piccolo.«Papà era ambizioso. Quand’ero piccolo mi faceva sentire i dischi di Coltrane nella speranza che mi prendessero. Solo che io non li capivo. Il jazz mi piaceva ma ascoltavo gente tipo Art Blakey. Poi, intorno ai quindici anni, mi sono compratoconvinto di averlo scoperto da solo. Ero sull’autobus e avevo messo il disco in un lettore portatile. Gli altri passeggeri devono avermi preso per matto: ascoltandolo ho avuto una reazione emotiva fortissima. Torno a casa e sbotto: “Ehi, papà, devi sentire questo disco, è il disco di Coltrane più incredibile che abbia mai sentito!”. E lui: “Quello è il mio disco preferito di Coltrane. Sono anni che tento di fartelo ascoltare!” ».Riguardo a “The Epic” (2015), il tuo primo disco, racconti spesso di esserti sentito come in sogno.«Lavoravo a The Epic in un periodo in cui ero anche in tour, perciò dormivo poco e in studio ero sempre morto di sonno. Una volta mi trovavo lì a un’ora antelucana e mi sono addormentato. Ho sognato di un tizio che viveva su una montagna, una specie di guardiano; ai piedi del monte c’era un paesello, e tutti gli abitanti di laggiù consideravano questo tizio il più grande in assoluto e poter salire da lui a sfidarlo era considerato un grande onore. Il sogno era vivido e al risveglio me lo sono annotato. Mi aveva fornito l’ispirazione per finire la canzone che stavo scrivendo; perciò quando sono passato al pezzo successivo speravo di fare un sogno anche su quello... e l’ho fatto. Ed è successo anche dopo. Tutto il processo si è trasformato in questa cosa per cui facevo sogni e li scrivevo: ho finito il disco quando ho concluso la storia. Avevo questa pila di foglietti con scritta tutta la vicenda in un modo che capivo solo io».Tuo padre ha scovato il tuo nome in Ghana, all’inizio era Kumasi, giusto?«Un annetto prima che io nascessi mio padre era stato in una città di nome Kumasi; a un certo punto tornò a casa e mi battezzò Kamasi, con la “a”. Letteralmente, kumasi significa “sotto la pianta di kuma”. La leggenda narra che gli ashanti erano in guerra fra loro ma volevano tornare in pace; quindi chiesero a uno sciamano di piantare due alberi in due città diverse, e la città dove fosse cresciuto l’albero sarebbe diventata la capitale, unificando la tribù. L’albero crebbe a Kumasi, e da allora tutti smisero di combattere. Inoltre, chiunque avesse un problema andava a discuterne sotto la pianta di kuma e la cosa diventò sinonimo di “riunire le persone”».Dopo aver registrato “The Epic” hai collaborato con Kendrick Lamar.«Fra i produttori di Kendrick c’è Terrace Martin. Mentre io lavoravo a The Epic, Terrace mi ha chiamato per collaborare al suo album Velvet Portraits( 2016). Aveva saputo che anch’io stavo registrando un album, gli ho fatto sentire alcuni pezzi; ascoltando gli archi e i cori mi ha chiesto chi aveva fatto gli arrangiamenti. Io gli dico che sono miei e lui mi fa: “Uh, avrei proprio bisogno che mi facessi una cosa per il disco nuovo di Kendrick Lamar” ( To Pimp a Butterfly, ndr). Vado in studio da loro e mi fanno vedere questo filmatino (Mortal Man, ndr) in cui un giornalista intervista Tupac. Mi chiedono di scriverci un commento musicale ma per capire il ruolo dell’intervista nell’album dovevo sentirlo tutto. Così mi fanno ascoltare il disco per almeno quattro volte. A ogni ascolto qualcuno diceva: “Certo su questo pezzo dovresti allargare un po’ gli archi...”. È finita che ci ho fatto un sacco di lavoro su quel disco, ma è stato un onore. Perché Kendrick è un grandissimo artista. E la cosa che tra tutte mi ha colpito di più, quando ho sentito il disco finito, è che dentro c’erano un sacco di miei amici d’infanzia».Una domanda che c’entra con Kendrick ma anche con te e con il tuo lavoro solista riguarda il fatto che ci sono cose che possono essere intellettualmente stimolanti ma questo non significa che debbano essere per forza underground. Come si collega questo concetto con le cose che fai?«Nella musica ci si scontra di continuo con l’idea che per essere accessibili le cose devono essere molto semplici. Io non sono mai stato d’accordo. Secondo me le cose sono accessibili se ti ci puoi identificare. Kendrick ha sfatato il mito per cui, se uno vuole fare musica che il vasto pubblico apprezza e capisce, deve farla facile, ripetitiva, “col trucco”: i suoi dischi sono molto complicati. L’idea che la gente non abbia l’intelligenza necessaria per capire la musica complicata, ecco, per me non esiste. Molti dischi bellissimi e popolari sono molto complicati: i Beatles, Stevie Wonder, Miles Davis, James Brown, tutti questi artisti non facevano musica facile. Devi soltanto metterci dentro qualcosa con cui il pubblico possa entrare in relazione».