la Repubblica, 8 luglio 2018
L’Amaca di Serra
Una giornata passata (non per lavoro, per amicizia) alla convention di una bella azienda italiana, in pieno decollo europeo e in pieno boom occupazionale, mi ha colpito non tanto per ciò che già sapevo (le competenze, le persone appassionate del loro lavoro, l’innovazione, l’energia) quanto per lo spazio dedicato alla situazione politica: zero.
Come se esistesse un Paese che di politica si occupa appena lo stretto necessario – gli snodi legislativi, le ricadute sui rapporti di lavoro, le pratiche al ministero – e il resto del proprio tempo e della propria fatica lo dedica alle incombenze materiali, alla soluzione dei problemi, alla configurazione del futuro.
Ho sempre trovato insopportabile la retorica aziendalista, quella che fa dire agli imprenditori presuntuosi «se mi affidassero il Paese, io saprei come farlo funzionare».
Il prototipo fu Berlusconi, la cui inconcludenza politica si rivelò poi, nei fatti, superiore a quella del più loffio dei dorotei. Le funzioni di un governo non sono le stesse di un Consiglio di amministrazione, e anzi a un buon governo può capitare di scontentarne parecchi, di Consigli di amministrazione.
Però l’idea che qualcosa funzioni non “contro” la politica, e nemmeno “grazie” alla politica, ma indipendentemente da essa, per autodeterminazione e per merito, e la politica rimanga fuori da certe porte, lontana da certe occasioni, sconosciuta a certe menti, è di enorme conforto.
È come verificare che la vita continua, e ha strade proprie per avanzare.