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 2018  luglio 08 Domenica calendario

Santiago, storia di un infiltrato che voleva vendicare il figlio




«Potrei dirle che sono un morto che cammina. Ma io, vede, preferisco considerarmi un vecchio che nonostante tutto sopravvive». I lunghi capelli grigi gli cadono sull’ampia fronte, gli occhi acquosi esaminano minuziosamente la strada oltre il balcone, il sigaro alla bocca è spento, la camicia di lino blu, in tinta con i pantaloni, è aperta sul petto e svela una catenina con crocefisso e fede matrimoniale: dopo il primo avvenuto a Lugano – adesso siamo in una stanza d’albergo a Mentone —, questo è il secondo incontro nell’arco di cinque mesi tra «la Lettura» e Santiago. Che poi Santiago non è il vero nome, ma del resto l’identità di questo settantunenne boliviano, ex importante uomo d’affari per una società svizzera, è coperta dal massimo segreto: ha l’aria d’un nonno che sverna al mare e invece è un infiltrato fra i narcotrafficanti per conto della Dea, l’anti-droga americana, e delle forze dell’ordine spagnole, italiane e albanesi (grazie alle quali sono potuti avvenire questi due incontri).
Santiago ha permesso arresti e sequestri. Santiago è un doppiogiochista. Santiago non insegue soldi e potere: vuole soltanto vendicarsi dei signori della droga che gli hanno quasi ammazzato un figlio. Il ragazzo è divenuto prigioniero della cocaina che gli ha mandato in pappa il cervello e l’ha confinato in un doloroso, forse inutile pellegrinaggio fra comunità di recupero e cliniche private. «È il primo dei miei quattro ragazzi. Quello sul quale, inutile nasconderlo, mia moglie e io avevamo le maggiori aspettative. L’abbiamo fatto studiare fin da piccolo nelle migliori scuole della Svizzera, dove ho abitato per anni; quando s’era fatto grandicello, l’abbiamo mandato in America. Ho dei parenti a Dallas che si sono presi cura di lui. La droga, a casa nostra, non è mai entrata. Sono originario di un piccolo paese della Bolivia che campa sulla cocaina. Ho avuto coetanei che anziché faticare hanno scelto i soldi facili della droga: oggi metà è morta e l’altra metà è inseguita da condanne a morte per qualche sgarro da punire. Eppure, com’è ovvio, neanche le migliori famiglie sono immuni dal pericolo. Quando abbiamo capito che mio figlio si faceva, era tardi. Troppo tardi».
La scelta, il motel, i contattiIl dolore, il senso di colpa, la convinzione di riuscire a recuperare, la speranza che si affievolisce. Infine la consapevolezza di una situazione compromessa. E poi? «Poi mi sono giurato e rigiurato che gliel’avrei fatta pagare. Come? Fregandoli. All’inizio erano pensieri in libertà, frutto della rabbia... Piano piano... Lavoro così, sotto copertura, da dodici anni. Ne avevo 57 quando scoprii la tragedia di mio figlio e 59 quando debuttai con la prima operazione».
Infiltrati non si diventa per caso. E deve sempre esserci una base di partenza. «In carriera, sono stato un uomo d’affari, ho mosso milioni di euro per imprenditori e manager di mezzo mondo. Ho visitato fin nei vicoli Mosca, non esiste paese montano dell’Albania dove non sia stato, ho girato l’intero Sudamerica e attraversato gli Usa e il Canada. Ovunque ho conosciuto persone che, probabilmente, erano anche dei corrotti e dei criminali... Ma mi era ben chiaro dall’inizio che, muovendomi in mezzo al denaro, non dovevo indignarmi, gridare allo scandalo. Ero libero di decidere». Quelle conoscenze, vaste e ramificate, hanno permesso a Santiago di acquisire informazioni e costruire una rete intercontinentale di contatti. A quel punto, grazie a mediatori («Chiamiamole amicizie comuni») sui quali Santiago mantiene uno stretto riserbo, è nato il legame con la Dea. L’anti-droga americana, per sua stessa essenza, è assai spregiudicata, balla spesso sulla linea del confine, punta la preda e azzannarla è un’ossessione. Con qualunque mezzo. Senza scrupoli. «Il mio debutto... Ricordo il posto nei dettagli. Un motel, il ventilatore rumoroso, una pessima birra e i tipi della Dea, due bestioni sudati: fecero un nome, un costruttore argentino che depositava soldi in Svizzera. In passato ne avevo sentito vagamente parlare. Aggiunsero che quel costruttore lavava i soldi dei narcos. Dovevo agganciarlo e scoprire chi aveva dietro. I bestioni mi diedero una valigetta. Piena di soldi. Per le spese».
Dall’arresto alla prigioneSantiago, attingendo alla sua rubrica, cercò il costruttore. Lo trovò. Fissò un pranzo a Basilea. Ne fissò un secondo e un terzo. Disse che aveva da parte una bella somma e la voleva investire nella droga. Non fu difficile convincere l’argentino ad «aprirsi» («Le banconote riescono a comprare anche uno già in tomba»). Lo pedinarono, ne studiarono gli spostamenti, vollero scoprire se si vedeva con gli sbirri. Al quarto pranzo si presentò un albanese, anello di congiunzione tra costruttore e trafficanti. «Acquistai una prima partita di droga e pagai in contanti. Tre mesi dopo, ripercorsi la trafila per un nuovo acquisto, ancora in cash. Agli occhi dell’organizzazione avevo ottenuto lo status di cliente affidabile. Non bisogna credere che sia un mondo inaccessibile: con così tanta droga, c’è spazio a volontà. All’infinito».
La Dea invitò Santiago a «salire di livello» e ordinare cinquanta chili, con l’anticipo di metà del prezzo e il saldo dopo la consegna. In considerazione dell’ingente carico, l’albanese in precedenza mediatore fu sostituito da tre connazionali, più alti in grado all’interno della «cupola». Una sera, nel punto dello scambio le forze dell’ordine fecero irruzione, arrestarono e sequestrarono. In manette finì anche Santiago. Che fu messo in galera e lì lasciato per qualche giorno. La recita doveva essere perfetta. Una recita protettiva.
Sulla linea del pericoloSantiago vive come un latitante. Cambia di frequente cellulare. È armato («Gli americani mi hanno insegnato a sparare»). Ha documenti di false identità custoditi in cassette di sicurezza. Trascorre lunghi mesi a «riposo», da pensionato, nascosto nel suo paesino boliviano, con la moglie e le visite degli altri figli. In attesa della prossima operazione. La penultima è stata in Colombia; l’ultima in Grecia, sulla rotta degli scambi – marijuana per eroina – tra le gang albanesi e quelle turche. La Dea l’ha messo «a disposizione» di colleghi europei. A suo rischio e pericolo. Sulla costa albanese ci sono terreni regalati dai criminali a ufficiali delle forze dell’ordine straniere affinché chiudano un occhio sugli sbarchi di droga. Non puoi escludere che qualcuno ti venda. Ma non hai alternative: devi fidarti. Quando si muove su scala continentale, Santiago si sottopone a lunghi trasferimenti sui bus di collegamento. Il figlio tossicodipendente è in California: «L’ho visto dieci giorni fa, faticava a riconoscermi. Ci sono dei momenti, e mi costa un enorme sacrificio ammetterlo, durante i quali spero che muoia, anziché vederlo restare in quello stato. Sembra tornato un neonato, incapace di badare a sé stesso». Ma la sua, Santiago, non è una battaglia contro i mulini a vento? Che cosa davvero vuole ottenere? «La vendetta mi tiene in vita. So bene che, forse, non posso salvare dei ragazzi ed evitare ad altri genitori la disperazione, il senso di fallimento che sopportiamo mia moglie e io... Però in realtà, e chiedo perdono a Dio, voglio il male di più gente possibile: se i trafficanti crepano, sono contento». Quanto durerà ancora? «Credo sia più facile entrare che uscirne... Uscirò mai? A volte mi sento una puta, altre un condannato. Un giorno ero in trattativa con uno mezzo matto. “Sei un traditore, ora ti sparo in faccia” disse. E io: “Non sono un traditore, ma se vuoi fai pure”. Scherzava. Se penso alla sua risata giocando con la pistola, tremo. Anche se era scarica».