La Lettura, 8 luglio 2018
All’assalto della guerra armati soltanto di versi
Nessuna guerra è poetica, a meno che non sia stata ancora combattuta. Sembrerebbe questo il modo più giusto di pensarla, il più ragionevole, il più umanamente e storicamente sensato. Eppure non è così. Al contrario, la letteratura di guerra, e in particolare la poesia, che è un modo espressivo straordinariamente obliquo e indiretto, dice di una situazione molto più complessa e ingarbugliata, intrinsecamente ambigua, tra desiderio di vedere e necessità di non vedere, tra volontà di dire e impossibilità di dire, tra l’aspirazione alla verità e l’urgenza di difendere, se possibile, la propria consistenza personale. Da questo punto di vista, la guerra ha rappresentato da sempre un banco di prova eccellente per la poesia, come una specie di acceleratore che ne ha esaltato talora le prerogative proprio mettendola a confronto con i suoi stessi limiti e impossibilità.
Non si tratta soltanto, dunque, della natura imprendibile e irriducibile – proprio perché mai univoca, mai a una voce sola – dei processi di formalizzazione (tanto più roventi a questo punto, visto che si tratta di dare forma e dunque senso a qualcosa, appunto la guerra, che forma e senso sembra non avere). Semmai, la poesia mostra in questo caso, a un livello antropologico molto profondo, la sua integrale appartenenza alla natura dell’uomo, di cui rispecchia e insieme sollecita ed esprime la sostanziale ambiguità: il continuo gioco (chiamiamolo pure così) tra ragione e sragionamento, intenzionalità e rimozione, desiderio di liberazione e senso di colpa, esperienza e ideologia, dimenticanza e obbligazioni morali. Nel suo eccellente studio dedicato alla poesia della Grande Guerra, non a caso, Andrea Cortellessa intende molto spesso quelle della letteratura come testimonianze involontarie ma proprio per questo tanto più capaci di dare luce, o meglio voce, alle vicende personali e generazionali dentro e anzi nel fitto di quella storia. Detto altrimenti, i testi di riferimento possiedono una «funzione storica» tanto più rilevante, quanto più appare definita e necessitata la loro «funzione estetica», al punto che, in verità, non riesce poi così facile distinguere con chiarezza tra le due.
Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale è curato appunto da Cortellessa per Bompiani in una nuova edizione notevolmente accresciuta (la prima era stata pubblicata nel 1998 da Bruno Mondadori). I documentatissimi e accuratissimi paratesti sono stai tutti rivisti e ampliati, sono stati inseriti nuovi autori, è stata aggiunta una postfazione, che riprende tutti i punti salienti del lavoro per ridiscuterli, come dal titolo, con Il senno di poi, nonché un’importante sezione biobibliografica, che rende conto dei «dati sensibili» dell’esperienza militare di tutti gli autori antologizzati. Bello anche il titolo: Foglio matricolare. È invece rimasta invariata l’originaria partizione per capitoli tematici, in cui la guerra viene di volta in volta associata ai concetti di attesa, festa, cerimonia, comunione, percezione, riflessione, lontananza, follia, tragedia, lutto, ricordo, condizione postuma. C’è un po’ l’intera parabola della guerra, dunque, con il suo ampio ventaglio di possibilità interne. Molti autori, non a caso, ritornano in capitoli diversi.
Il volume prende il titolo da un verso di Montale, che per altro costituisce un autore un po’ laterale rispetto al grosso dell’antologia, ma che diventa rappresentativo, un po’ come Gadda, per via negativa, cioè per il procedimento sistematico di censura e di rimozione della sua esperienza bellica. Quel suo verso però, a partire dalle percezioni immediate (la notte che lo scoppio delle bombe illumina a giorno, la morte che ha i colori dell’alba), risulta quanto mai emblematico di quel capovolgimento del senso, fino al limite del suo completo annichilimento, che è stato il retaggio più comune della poesia dal e del teatro di guerra. Di qui, quello che può essere considerato il filo conduttore di una ricerca che comporta comunque molti punti di vista vicendevolmente implicati: «La letteratura di guerra poteva essere vista, e fatta funzionare, come una grande negazione freudiana: una rimozione collettiva».
L’antologia, in ogni caso, è ricchissima. Sempre in un contesto molto reattivo di discussione storico-letteraria, comprende testi mirabili e altri incredibilmente scadenti, vergognosi addirittura per il loro bellicismo trionfale e spensierato. Sono presenti autori consacrati – Rebora, Ungaretti, Campana, Jahier, Boine, Soffici, Bontempelli, D’Annunzio, Marinetti e i principali futuristi, Gozzano, Sbarbaro, Saba, Montale, Comisso, Zanzotto – e altri molto meno noti, se non quasi dispersi: Annunzio Cervi, Giulio Barni, Vann’Antò, Francesco Meriano, Aldo Spallicci e vari altri con loro. Le questioni poste da un libro simile sono inevitabilmente tante. Ma tra queste la più decisiva, la più terribile, riguarda probabilmente la possibilità stessa che la storia possa davvero insegnare qualcosa. Quanto a questo i versi di Jahier, posti anche nella quarta di copertina, lasciano davvero poche speranze: «Non dire che è una lezione./ La distruzione non è una lezione./ Muoiono i migliori, muoiono i soli/ che potessero approfittare».