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 2018  luglio 07 Sabato calendario

Vita di Prezzolini

Visse cento anni di solitudine e mille vite di relazione. Insegnò in America a due generazioni di studenti; discusse di filosofia con Croce e Bergson, di economia con Einaudi, di musica con Pizzetti, di poesia con Mallarmé, di letteratura con Bacchelli e Gide, di educazione con Amendola e Salvemini, di teatro con Ibsen e Claudel, di religione con Murri e Omodeo. Tenne carteggi con tutti, e non fu amico di nessuno. Come Voltaire, non ebbe una filosofia sistematica, né gli interessava di averla. E come del grande francese si può dire di lui: apritene una pagina a caso, non ne troverete una di noiosa.
LA VITAGiuseppe Prezzolini nacque a Perugia il 27 Gennaio 1882. Non fece studi regolari, si nutrì della fornitissima biblioteca del padre. A vent’anni, con Giovanni Papini, aveva già fondato una rivista, Il Leonardo. A ventisei ripetè l’esperienza con La Voce, forse la più autorevole pubblicazione periodica del secolo. L’elenco dei collaboratori, oltre ai nomi illustri già citati, comprende i più vigorosi intelletti della cultura italiana e straniera. Durante la prima guerra mondiale si arruolò e combattè con valore. Continuò a scrivere, ma l’Italia gli stava stretta: aveva già maturato quelle idiosincrasie per i nostri difetti congeniti che avrebbe squadernato in un libello corrosivo, il Codice della vita italiana, che inizia con il significativo articolo uno: «I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi». Così, nel 1925, si trasferì a New York per insegnare alla Columbia, la sua università più prestigiosa. Nel 1940 diventò cittadino americano, ma dieci anni dopo tornò in Italia. Se ne allontanò definitivamente nel 68, nauseato dalle proteste, dalle sciatterie e dai disordini. Gli intellettuali di sinistra, che comme d’habitude l’avevano ignorato, sibilarono di rancore quando due presidenti socialisti, Saragat e Pertini, gli conferirono il cavalierato di Gran Croce e la Penna d’oro. Mori il 14 Luglio 1982 a Lugano, lasciando un immenso archivio di corrispondenza e di manoscritti, e nient’altro. Era sempre vissuto frugalmente, e se ne vantava. 
Prezzolini fu un capitolo unico della cultura italiana. Aveva fondato la società degli apoti, un intraducibile neologismo che indica quelli che non se la bevono: cioè gli scettici irriverenti, i dubbiosi, i nemici del politicamente corretto, gli eredi insomma di Pirrone e di Montaigne. Era pessimista sull’umanità in genere, e sugli italiani in specie. Non sappiamo se il suo caratteraccio fosse la causa o l’effetto di questa visione duramente hobbesiana. Sta di fatto che litigava con tutti, soprattutto con gli amici, e quasi se ne compiaceva. Montanelli, polemico quanto lui, disse che non gli avrebbe dato la soddisfazione di toglierli l’amicizia. In realtà i due litigarono appassionatamente fino alla fine: amantium irae amoris integratio. 
RADICIDopo una serie infinita di pubblicazioni, Prezzolini scrisse, a novant’anni, il Manifesto dei conservatori. Il libriccino è breve, ma lui partì da lontano, cioè dall’origine semantica della parola, la cui radice indoeuropea significa custode che protegge. Da lì passò al concetto di conservazione nella biologia, nella filosofia, nella storia e infine nella politica. Con questo viatico, Prezzolini demolisce molti stupidi pregiudizi sull’uso di questa parola, che riconduce al suo nobile significato di funzione essenziale della vita. Concluse che, in generale, la regola universale dell’esistenza non è la evoluzione ma la conservazione (Darwin avrebbe avuto qualcosa da ridire); e, in politica, essa costituisce un freno ai desideri impulsivi, ai progetti infantili o demagogici, ai programmi di demolizione senza speranza di ricostruzione. Enunciò quindi i principi del vero conservatore, opposti a quelli dei progressisti: la tradizione contro la novità, il rispetto contro la dissacrazione, il realismo contro l’utopia, i fatti contro l’ideologia, la proprietà privata contro il collettivismo, il risparmio individuale contro l’assistenza obbligata, la competizione contro l’appiattimento, la pace armata contro il disarmo irenista, e infine i doveri prima dei diritti. A monte di questi – e di altri – princìpi, la consueta valutazione ferina della natura umana, contro gli ingenui vaneggiamenti di un’ inesistente aurea età primordiale.
I LIBELLIForse Prezzolini fu influenzato, nell’umore e nella visione del mondo, dalla sfiduciata misantropia di Jonathan Swift, di cui aveva tradotto, giovanissimo, i Libelli. Sarebbe stato più convincente, e forse più felice, se avesse temperato questo pessimismo con un’arte di vivere più accomodante e oraziana. Avrebbe dovuto trarre esempio da Fontenelle, disincantato e anziano quanto come lui, che da centenario si doleva di non poter corteggiare le fanciulle, con ottant’anni di meno. Tuttavia non fu mai un disperato: nobilitò queste attitudini negative con una rigorosa coerenza morale. Dipinse il nostro vizio peggiore – la furberia meschina – senza mitigarla con la consueta indulgente comicità; al contrario, manifestò una lacerante sofferenza per le disastrose conseguenze di questi artifizi truffaldini. «L’italiano scrisse disgustato – ha un tal culto della furbizia che ammira persino chi se ne serve a suo danno; è un popolo che si fa guidare da imbecilli che hanno fama di essere machiavellici, aggiungendo così al danno la beffa, ossia l’insuccesso alla disistima». E qui fu ingiustamente severo. Non è sempre stato così: o almeno non lo è stato con De Gasperi e alcuni suoi successori. Tuttavia è vero che molti, troppi dei nostri politici hanno parlato e agito con la riserva mentale di truccar le carte sia con gli avversari che con gli alleati, illudendosi di lucrar vantaggi da ingenue furberie che si sono sempre rivelate catastrofiche. Vivendo a lungo negli Stati Uniti e in Svizzera, si confermò nella convinzione che il rispetto delle regole non è affatto, come molti qui credono, un ossequio rassegnato a un potere ostile, ma è la via migliore per una vita ordinata e, in definitiva, più facile.
RELIGIOSITÀMa alla fine, dopo un secolo di studio della natura umana, diventò scettico anche del suo scetticismo: dubitò della razionalità del mondo, perse fiducia nella ricerca e addolcì il suo agnosticismo con un paravento di religiosità che alcuni interpretarono come conversione. «Dio è un rischio scrisse ma lo è anche la scienza». In un mondo irrazionale, diffidò anche dell’intelligenza. «Non bisogna confondere il furbo con l’intelligente – concluse al termine della sua vita – Ma l’intelligente è spesso un fesso anche lui».