La Stampa, 7 luglio 2018
Intervista con la Strega
La mia Gerda è l’emblema di una donna che ha scelto di liberarsi dai suoi vincoli, dalle sue catene»: e proprio con l’avventurosa e tragica vicenda di Gerda Taro, Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera da genitori ebrei-polacchi e in Italia da circa trent’anni, si è conquistata il premio Strega 2018 dopo aver vinto anche il Bagutta. Capelli neri e mèches verdi, Helena è stata la prima donna da 15 anni a questa parte a salire sul prestigioso podio del Ninfeo di Villa Giulia. Il suo La ragazza con la Leika (Guanda) è una storia di amore e di morte. Racconta infatti la partecipazione della 27 enne fotografa, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, alla guerra civile spagnola in cui perse la vita travolta da un carro armato. Ma anche il suo legame appassionato con il celebre fotoreporter Robert Capa, anch’egli presente in quello scenario bellico.
Possiamo dire che la sua emancipata eroina è in qualche misura un suo alter ego?
«Assolutamente no. La sfida per una scrittrice è misurarsi con il diverso. Rinunciare al proprio “io” e restituire al lettore l’affascinante e complicato mondo degli Anni Trenta e la sua gioventù un po’ folle e disperata. Gerda, militante comunista nella Germania nazista, finisce in carcere, quindi fugge a Parigi dove conosce l’ebreo ungherese Endre Friedman, in arte Robert Capa, per approdare infine nella penisola iberica. A differenza di Gerda, io ho sempre avuto un forte legame con la mia famiglia. Semmai la giovane fotografa assomiglia a mia mamma Nina».
C’è un’aria di famiglia, dunque. Che cosa avvicina queste due donne?
«Sono state entrambe tempre forti, audaci, indipendenti. Ho parlato del mio rapporto con mia madre in Lezioni di tenebra, romanzo fortemente autobiografico. Mamma, che abitava in un paesino polacco vicino al confine con la Germania, è sopravvissuta alla vita nel ghetto e poi anche ad Auschwitz. Quando, all’inizio del ’45, le truppe russe si stavano avvicinando al lager, Nina fu costretta ad affrontare malata e denutrita, con molti altri prigionieri, la cosiddetta marcia della morte per essere trasferita in un altro campo. Resistette anche a quella prova e, rinata, sposò mio padre che conosceva da prima delle deportazioni».
Suo padre evitò il campo di concentramento?
«Sì, ci riuscì grazie a documenti falsi che era riuscito a procurarsi. Io ancora oggi utilizzo il cognome con cui papà si sottrasse alle SS: il nostro vero cognome è un altro».
Gerda non si chiamava così, Robert Capa nemmeno e pure lei usa uno pseudonimo. Una coincidenza?
«Non direi, il cambio dei nomi è intimamente legato alle loro vite travagliate: Gerda in fuga, Capa che in tal modo si spacciò per americano, mio padre che scelse questo espediente per sopravvivere».
C’è un’attualità politica in questo suo romanzo storico?
«Nel mio precedente libro Le rondini di Montecassino ho scelto un importante episodio della Seconda guerra mondiale colpita soprattutto dal fatto che le truppe Alleate che cercavano di sfondare le linee tedesche si sono avvalse del contributo di militari di diverse nazionalità e religioni, dai polacchi ex deportati ai nepalesi, dai maori della Nuova Zelanda agli indiani e a qualche migliaio di ebrei. Questa partecipazione multietnica e multiculturale ha stimolato il mio interesse per quello scontro epico. Sono storie molto diverse, ma anche ne La ragazza con la Leika Gerda e Robert spendono e sacrificano la loro esistenza in nome dell’internazionalismo. Nel mondo, purtroppo, assistiamo a un rinascere di nazionalismi beceri, di individualismi, alla volontà di chiudere le frontiere. Con il racconto del dramma di Gerda ho inteso dare un mio contributo alla riflessione su questi argomenti».
È orgogliosa di avere interrotto la lunga sequenza di premi Strega al maschile? Ora il suo racconto, già incoronato con il Bagutta e con lo Strega, concorre anche al premio Campiello. Vuole fare cappotto?
«Orgogliosa non mi pare la parola giusta per il riconoscimento romano. Che narratrici vincano nel più noto agone letterario italiano dovrebbe essere nella normalità delle cose. Non deve stupire la mia vittoria, ma il fatto che troppo poche donne abbiano conquistato questo alloro».