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 2018  luglio 07 Sabato calendario

La guerra dei dazi tra Usa e Cina

«Gli Stati Uniti hanno scatenato la più grande guerra commerciale della storia». Così Pechino ha commentato le tariffe del 25% imposte da Washington sull’importazione di prodotti cinesi per 34 miliardi di dollari, a cui la Repubblica popolare ha subito risposto con una rappresaglia analoga. Il presidente Trump minaccia ora un’escalation da 500 miliardi di dollari, ma così mette a rischio la forte economia americana, che proprio ieri ha celebrato risultati molto positivi per l’occupazione.
Gli Usa hanno un deficit commerciale con la Cina di 375 miliardi di dollari, che il capo della Casa Bianca vuole ridurre di almeno 200 miliardi. Le ragioni sono tre: il presidente ritiene che lo squilibrio penalizza l’economia americana; danneggia i lavoratori di stati chiave per la sua rielezione come Pennsylvania, Ohio e Michigan; e favorisce il piano di Pechino per diventare il leader mondiale nella produzione dell’alta tecnologia entro il 2025, minacciando così supremazia e sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nei mesi scorsi l’Amministrazione ha negoziato una soluzione, e la Repubblica popolare ha offerto di comprare più prodotti americani. La proposta è stata giudicata insufficiente, e quindi Trump ha imposto la scadenza del 6 luglio per trovare una soluzione, altrimenti avrebbe imposto i dazi. Il termine è passato alla mezzanotte di giovedì, e quindi sono entrate in vigore tariffe del 25% su beni per 34 miliardi di dollari. Per ora colpiscono soprattutto apparecchiature industriali intermedie, per non far sentire il peso ai consumatori americani. Pechino però ha risposto con dazi analoghi su prodotti come soia, carne di maiale, auto, che invece si avvertiranno proprio negli stati del Midwest di cui il presidente ha bisogno per vincere le elezioni.
Trump ha minacciato quindi di avviare un’escalation, imponendo tariffe su tutti i prodotti da 500 miliardi di dollari che la Cina vende negli Stati Uniti, sicuro di vincere perché le esportazioni della Repubblica popolare sono oltre il doppio di quelle americane. Xi però è pronto a rispondere con misure asimmetriche, come il boicottaggio delle attività delle aziende Usa nel suo mercato, o in ultima istanza del debito di Washington.
La crisi sta diventando globale, perché nel frattempo Trump ha imposto dazi anche contro i tradizionali alleati europei. Ora minaccia di colpire le esportazioni di auto dalla Ue, puntando a penalizzare soprattutto la Germania, ma Bruxelles è pronta a reagire con tariffe su prodotti Usa per 300 miliardi di dollari. La commissaria al Commercio dell’Unione, Cecilia Malmstroem, ha commentato così: «L’escalation dei dazi tra Usa e Cina è una sviluppo preoccupante. Le guerre commerciali sono cattive e non facili da vincere». Anche la Russia ha deciso di rispondere alle misure di Washington su acciaio e alluminio, varando tariffe tra il 25 e il 40% su alcune importazioni dall’America: «Abbiamo adottato, e adotteremo provvedimenti per difendere i nostri interessi», ha detto il portavoce del presidente Putin, Peskov.
Il rischio è che la Ue volti le spalle agli Usa. Il presidente della Commissione Juncker ha annunciato che «martedì firmerò col premier giapponese l’intesa commerciale onnicomprensiva più ampia che l’Unione abbia mai concluso». Il 16 luglio poi è in programma il vertice sino-europeo a Shanghai, e il presidente Xi vorrebbe usare questa occasione per stringere un’alleanza con Bruxelles contro Washington.
L’amministrazione è divisa sulle prospettive della guerra commerciale. Il ministro del Tesoro Mnuchin spera di usarla solo per convincere Pechino a riequilibrare il deficit, senza danneggiare la buona crescita economica, che a giugno ha creato 213.000 posti di lavoro negli Usa. Il rappresentante per i commerci Lighthizer però la vede come una misura protezionistica di lungo termine, e sullo sfondo torna minacciosamente alla mente l’avvertimento del filosofo Frédéric Bastiat: «Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti».
p. mas.
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La vera battaglia dietro alla guerra commerciale contro la Cina è quella per il controllo dell’alta tecnologia, e quindi la supremazia globale futura dei due Paesi. Certo, il presidente Trump è ossessionato dallo squilibrio della bilancia commerciale, anche perché secondo lui penalizza gli elettori di Stati chiave per la sua conferma alla Casa Bianca nel 2020, come Pennsylvania, Ohio e Michigan. Il nodo di fondo che coinvolge la sicurezza nazionale, però, è l’ambizione di Pechino a diventare il leader mondiale della produzione di tecnologia.

La strategia scelta da Washington tuttavia ha due problemi: primo, il genio forse è già uscito dalla lampada, e i dazi potrebbero non bastare a rimetterlo al suo posto; secondo, l’attacco contemporaneo all’Europa complica la creazione di un fronte unito occidentale contro la Repubblica popolare.
La logica di una sfida
Alcuni giorni fa, durante un briefing con i giornalisti, il consigliere della Casa Bianca per i commerci Peter Navarro ha spiegato così la logica della sfida sui dazi: «La Cina ha preso di mira le industrie americane del futuro, e il presidente Trump capisce meglio di chiunque altro che se Pechino avrà successo nel catturare queste attività emergenti, l’America non avrà un futuro economico».
Da anni i furti della proprietà intellettuale sono una nota dolente nel rapporto commerciale con la Repubblica popolare, anche per l’Europa. Ogni azienda occidentale che vuole operare nel Paese, ad esempio, è obbligata ad avere un partner locale con cui deve condividere la propria tecnologia, di fatto perdendola.
La conquista
L’operazione però è diventata sistematica con il programma “Made in China 2025”, voluto dal presidente Xi Jinping per conquistare la leadership in settori come la robotica, l’intelligenza artificiale, la telefonia 5G, l’editing genetico, e quindi anche difesa. L’obiettivo non è ottenere solo un vantaggio economico, ma anche strategico e militare. Non è un mistero, ad esempio, che compagnie produttrici di telefoni cellulari e hardware come Zte e Huawei siano sospettate di essere strumenti organici dell’apparato di spionaggio di Pechino.
L’offensiva non si è limitata alle condizioni imposte alle compagnie straniere per operare nella Repubblica popolare, ma si è allargata anche agli investimenti in America.
Tra il 2015 e il 2017 la Cina ha partecipato al venture capital che ha finanziato il 16% dell’alta tecnologia Usa, fra cui 81 progetti di intelligenza artificiale da 1,3 miliardi di dollari, e 2,1 miliardi forniti alle start up della realtà aumentata. Così acquista la conoscenza americana e la fa sua. Sullo sfondo poi c’è il controllo della telefonia 5G, che secondo le stime di IHS Markit muoverà 12,4 trilioni di dollari entro il 2035.
Pechino in sostanza vuole soffiare alla Silicon Valley il primato globale dell’innovazione, e questa sfida ha un impatto molto più ampio del deficit commerciale e della stessa economia nazionale. I dazi quindi servono a vincerla, anche puntando sul fatto che la stampa tridimensionale tenderà a cancellare il vantaggio garantito alla Cina dai suoi salari bassi, favorendo i piani per riportare l’industria manifatturiera negli Usa.
I limiti della mossa
I problemi della strategia di Donald Trump, oltre ai potenziali effetti negativi sulla crescita economia globale, sono principalmente due. Il primo è che forse arriva già in ritardo. Gli investimenti cinesi negli Stati Uniti sono già scesi da 46 miliardi nel 2016 a 1,8 nel 2018, in parte per le limitazioni imposte da Washington, ma forse anche perché la Repubblica popolare sta diventando autosufficiente in termini di sviluppo dell’alta tecnologia. Il secondo problema è strategico. Gli oppositori democratici e gli europei concordano sulle accuse a Pechino per i suoi comportamenti, ma divergono sui metodi scelti da Trump.
E la guerra commerciale lanciata in contemporanea anche contro la l’Unione europea complica la creazione di un fronte comune, spingendo invece Bruxelles verso la tentazione di cedere all’abbraccio offerto da Xi.
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CHARLES KUPCHAN e EDWARD ALDEN

Il mondo è entrato in pieno in una guerra commerciale. L’Europa, il Canada e il Messico hanno già adottato contromisure contro i dazi imposti dagli Stati Uniti su acciaio e alluminio e ieri la Cina e gli Stati Uniti hanno intrapreso per conto proprio e in modo più esteso un giro di dazi e contromosse.

I mercati continuano a sperare in successivi accordi per fermare l’escalation, ma disinnescare questa distruttiva guerra commerciale richiede passi più urgenti e di portata più ampia. In particolare l’Unione europea, il Giappone, il Canada e gli altri Paesi che fin qui sono stati sostenitori passivi di un sistema di commercio fondato sulle regole, ora devono farsi attivisti e diventare propositivi usando l’ordine multilaterale esistente per emendare le iniquità insite nel commercio globale e legittimamente individuate da Trump.
Il presidente ha ragione nel ritenere che i patti che regolano il commercio internazionale debbano essere aggiornati e che alcuni Paesi, in particolare la Cina, ne abbiano ottenuto vantaggi ingiusti. Ma la sua cura è peggiore della malattia; ricorrendo all’imposizione unilaterale di dazi piuttosto che collaborare con le nazioni che la pensano allo stesso modo per affrontare gli squilibri, sta mobilitando i Paesi contro gli Stati Uniti, sconvolgendo i mercati e minando il sistema esistente.
Affrontare le disuguaglianze utilizzando il sistema di regole che Trump sta deliberatamente minando è la scelta migliore per salvarlo da se stesso, per scongiurare nuove ondate di protezionismo e preservare la stabilità del sistema.
La guerra dei dazi intrapresa da Trump non solo è destinata a far calare i commerci e a deprimere la crescita, ma anche a compromettere in modo irreversibile il sistema di scambi regolato che è alla base dell’espansione del commercio internazionale fin dalla seconda guerra mondiale. E la sua amministrazione sta infatti studiando in quale modo gli Stati Uniti possano abbandonare il fulcro di questo sistema: l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Negli ultimi sette decenni, la regolamentazione istituzionale degli scambi commerciali ha facilitato la progressiva riduzione dei dazi e favorito la crescita del commercio più rapida mai registrata nella storia umana. Quel record è in netto contrasto con quanto era accaduto prima. Durante il periodo tra le due guerre, il protezionismo frutto di ritorsioni alimentò il nazionalismo economico che contribuì ad innescare la seconda guerra mondiale.
Sono rischi da non minimizzare; la miscela tossica di populismo e protezionismo che è diventato il marchio di fabbrica di Trump ha portato l’Occidente su una china scivolosa. La ripicca contro il presidente americano sta montando dato che i Paesi colpiti dalle misure statunitensi si vendicano piuttosto che piegarsi alla sua volontà. I bersagli della sua ira non hanno altra scelta che rispondere a tono perché sono gli stessi elettori a chiedere che si resista al bullismo del presidente americano. Questo è un classico meccanismo a spirale uscito direttamente dai libri di storia degli Anni Trenta.
Ma se vogliono arrestare questa spirale e impedire lo smantellamento dell’ordine esistente, l’Europa, il Canada, il Giappone e le altre democrazie con idee affini hanno bisogno di una strategia diversa dalla rappresaglia. Questa strategia alternativa dovrebbe svilupparsi secondo tre assi principali.
Negoziato al Wto
In primo luogo, occorre ricondurre ogni eventuale negoziato all’Organizzazione mondiale del commercio, che è la sede appropriata. Trump vuole colloqui su base bilaterale, sperando così di dare agli Stati Uniti, e al suo grande mercato, un margine negoziale. Gli altri Paesi dovrebbero sottrarsi a questo gioco e impegnarsi invece ad affrontare le legittime preoccupazioni degli Stati Uniti in un modo che rafforzi piuttosto che minare un ordine basato su delle regole. Emendare il sistema significa lavorare al suo interno, non aggirarlo. L’amministrazione Trump opporrebbe resistenza ma dovrebbe ripensarci se il Wto diventasse il fulcro dell’azione e affrontasse di petto Washington che a quel punto rischierebbe l’isolamento.
Nuove regole con Pechino
In secondo luogo, occorre concentrarsi sull’elefante nella stanza - la Cina. Sì, il commercio nel Nord America e attraverso l’Atlantico può essere reso più equo, ma questo significa lavorare sui dettagli. Il nodo, il macigno che si profila all’orizzonte, è stabilire le regole del gioco con la Cina, la cui economia statalizzata distorce drammaticamente il commercio globale. Occorrono nuove regole e forti pressioni per ridurre le sovvenzioni industriali cinesi, impedire il trasferimento coattivo della tecnologia e reprimere il furto di proprietà intellettuale. Nell’affrontare la Cina su questi temi, gli Stati Uniti dovrebbero lavorare di pari passo con i loro partner commerciali democratici. E questo è un altro buon motivo per ricondurre nell’alveo del Wto i negoziati.
In terzo luogo, bisogna occuparsi anche dell’automazione e del futuro del lavoro, non solo della correttezza degli scambi commerciali.
La sfida dei robot
I governi di tutto il mondo stanno affrontando una sfida condivisa: aiutare i loro cittadini a mantenere il proprio benessere in un ambiente globale. Se i benefici portati dall’automazione e dalla globalizzazione non saranno distribuiti in modo più equo, i Paesi sceglieranno di isolarsi dalla competizione internazionale secondo il classico sistema di scaricare sugli altri le proprie difficoltà - esattamente quello che sta succedendo negli Stati Uniti.
Dalla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno guidato l’economia globale, portandola verso una maggiore apertura e prosperità. Ma ora hanno abdicato a quel ruolo, almeno temporaneamente, lasciando, per la prima volta dagli Anni 30, l’economia mondiale incustodita. Altri devono ora riempire quel vuoto. Il presidente francese Emmanuel Macron in un recente discorso ha chiesto che si torni a un «multilateralismo spinto» e ha esortato l’Ue a prendere l’iniziativa in collaborazione con gli altri Paesi per sviluppare urgentemente una tabella di marcia per i nuovi negoziati del Wto.
È tempo che questo avvenga prima che ulteriori ritorsioni sui dazi finiscano per lasciare nel caos l’ordine mondiale del commercio.
Traduzione di Carla Reschia