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 2018  luglio 02 Lunedì calendario

Gabriele Salvatores: «Farò Marrakech Express dopo i 60 anni»

Gabriele Salvatores non crede ai premi. Ha appena vinto il Nastro d’Argento con il suo film sui supereroi, Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, ma non si sente un pioniere per aver sdoganato il genere prima degli altri: «Non ho avuto chissà quale intuizione. Ho solo avuto più possibilità». E se gli si ricorda l’Oscar, che vinse nel 1991 con Mediterraneo, mette le mani avanti: «È stato un colpo di fortuna che in fondo sentivo di non meritare. Un superpotere da cui sono derivate grandi responsabilità». Ritirando sabato il premio alla carriera all’Ischia Film Festival, però, il regista – 68 anni a luglio – non ha nascosto l’emozione: «Un premio alla carriera? A questa età comincio a crederci. Non potrei mai smettere di fare cinema. Quando giro un film sto bene. Senza mi sentirei un imbecille».
Fra un mese comincerà le riprese del nuovo film. Di che si tratta?
«È un on the road con cui torno, con grande piacere, al tema centrale dei miei film: il cambiamento. È un filo rosso che unisce tutti i miei lavori. Sarà una specie di Marrakech Express dopo i 60 anni, con una visione del mondo e dei rapporti più matura. Ci sarà di nuovo Diego Abatantuono, ci sarà Claudio Santamaria, con cui non ho mai lavorato, ci sarà Valeria Golino e un ragazzo esordiente di 18 anni». 
Dove girerete?
«Il viaggio partirà da Trieste, attraverserà la Slovenia e finirà nei deserti della Croazia. I protagonisti sono quattro: un ragazzo, i suoi genitori naturali e il padre adottivo che ha sposato sua madre. È lui a portarseli dietro, in viaggio, come fosse un pifferaio magico, mettendoli di fronte alle loro responsabilità».
È tratto da un romanzo o è una storia originale?
«È liberamente ispirato a un storia vera. È un film che contiene anche un lato fantastico, non razionale: diciamo che racconta lo scontro, tipico delle persone della mia generazione, con il diavolo dell’irrazionalità che continua a girarci in testa».
Era dal 2010 che non dirigeva Abatantuono.
«Ogni tanto Diego mi fa arrabbiare. Se fosse meno pigro, sarebbe la più grande star del cinema italiano. Diego è come un simbolo, una metafora del nostro Paese: pieno di inventiva, si accontenta troppo dei doni ricevuti».
Niccolò Ammaniti, con cui ha spesso collaborato, ha girato una serie tv. L’ha vista?
«Sì, ho visto Il Miracolo, ma solo qualche puntata. Ho un problema con le serie, da spettatore: non riesco a stare troppo tempo davanti alla tv. Mi mette tristezza». 
E da regista?
«Ne vorrei girare una. Sto facendo alcuni incontri per definire il progetto. Con Quo Vadis Baby, nel 2008, ci avevamo già provato. Una miniserie tratta dal mio film, dirigeva Guido Chiesa».
Non andò benissimo.
«Ma io ero convinto che quell’operazione avesse senso. E lo credo ancora. Penso però che il futuro delle serie non sia nello stupire gli spettatori con effetti speciali. Bisogna cecare temi e modi diversi per raccontare.
Netflix: morte o evoluzione del cinema?
«La sala cinematografica non morirà mai. Se è in crisi, non succede per colpa di Netflix: oggi siano noi che non riusciamo più a dedicare due ore del nostro tempo alla disponibilità passiva del cinema. Viviamo in un’epoca in cui il consumismo e la voglia di protagonismo, i selfie e gli smartphone, ci hanno fatto rinchiudere in noi stessi. Succede al cinema come in politica». 
Cioè?
«In entrambi i settori si preferisce rifiutare il cambiamento, perché aprirsi al nuovo costa fatica. Certe decisioni non andrebbero prese cavalcando la paura della gente». 
In Come Dio comanda immaginava un protagonista che odia gli immigrati. Lo girò nel 2008: sembrava estremo.
«E invece ora è molto attuale. È impressionante. Spero che la cultura ci salvi da questa deriva. Dobbiamo scacciare la paura».
Un film sui migranti lo farebbe?
«Sette anni fa avevo scritto con Umberto Contarello un film ambientato su una di quelle navi che cadono a pezzi, un cargo che porta materiali tossici usato dagli scafisti per trasportare la gente. Nella storia la barca cercava di approdare in Italia, ma l’Italia chiudeva i porti. Non è diventata un film perché è una sceneggiatura molto costosa, ma chissà». 
Un film nel cassetto?
«Mi piacerebbe girare un film su una rock star. Prendere magari le prime settanta pagine della biografia di Keith Richards, Life, e far finire il film quando incontra un altro ragazzino a cui piace fare musica: Mick Jagger».