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 2018  giugno 30 Sabato calendario

Durand de la Penne, l’eroe e il gentiluomo

Alla fine del 1941 la marina britannica, nonostante le gravi perdite subite in Atlantico e in Oriente, era ancora la più grande del mondo. L’età abbastanza vetusta delle sue navi da battaglia era ampiamente compensata dal loro numero, dall’addestramento degli equipaggi, dalla genialità degli ammiragli e dalla conoscenza dei codici tedeschi. La nostra flotta, senza nafta, senza portaerei e senza radar era stata rudemente strapazzata due volte: nel porto di Taranto, dove un gruppo di aerosiluranti aveva semiaffondato tre nostre corazzate, e al largo di Matapan dove l’aggressivo ammiraglio Cunningham aveva distrutto un’intera divisione di nostri incrociatori. Il Mediterraneo era ormai dominato dagli inglesi. Dalle due basi di Gibilterra e di Alessandria partivano le missioni che assicuravano i loro rifornimenti a Malta, mentre impedivano i nostri in Libia. Ancora qualche settimana, e le truppe dell’Asse sarebbero rimaste a secco di carburante, di cibo e di munizioni. L’Italia reagì con i suoi talenti tradizionali: l’audacia e la fantasia. Aveva costruito i maiali, metà sommergibili metà siluri, guidati da una coppia di marinai e muniti di una potente testata esplosiva. La notte del 18 Dicembre 1941 ne spedì tre nel porto di Alessandria, al comando di un giovane tenente di vascello: Luigi Durand de la Penne.
LE DOTI
Era nato a Genova l’11 Febbraio 1914, da famiglia nobile di tradizioni marinare. Entrò in Accademia e, iniziata la guerra, partecipò a varie incursioni che ne misero in luce l’intelligenza e l’ardimento. Furono queste doti che lo indicarono come l’uomo più adatto a guidare quella missione impossibile. Scelse personalmente l’equipaggio, che vogliamo ricordare con riconoscente emozione: Vincenzo Martellotta, Antonio Marceglia, Mario Marino, Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi. Quest’ultimo è morto nel 2015, all’età di 103 anni. Questi sei uomini, con sforzi inauditi, deposero le cariche sotto due corazzate e una petroliera. Bianchi svenne per la fatica, emerse e fu catturato. De la Penne, che lo aveva soccorso, fece la stessa fine. Entrambi furono portati a bordo della Valiant, furono interrogati con la ferma cortesia della Royal Navy e naturalmente si rifiutarono di parlare. Il comandante della corazzata, Morgan, li fece rinchiudere nella stiva.
Dieci minuti prima dell’esplosione, de la Penne avvisò Morgan che il suo obiettivo era la nave, non l’equipaggio: e poiché la corazzata stava per saltare, doveva essere evacuata. Morgan lo rispedì gentilmente in cambusa, ma mise in salvo i marinai. Poco dopo la Valiant fu scossa da un botto tremendo. La porta della cella fu scardinata, e i due palombari uscirono in tempo per vedere la nave imbarcare acqua e appoggiarsi sul basso fondale. Un attimo dopo un’esplosione analoga squassò la Queen Elizabeth, che fece la stessa fine; una terza carica affondò una petroliera. In pochi minuti, la Mediterranean fleet era stata neutralizzata, come quella americana a Pearl Harbor alcuni giorni prima: con la differenza che i giapponesi avevano mobilitato sei portaerei con centinaia di velivoli e migliaia di uomini, così come, a Taranto, gli inglesi avevano impiegato un’intera squadra di linea. Per Alessandria, Churchill avrebbe potuto citare sé stesso: mai nella storia dei conflitti navali tanto danno era stato inflitto a tanti da così pochi.
LA PRIGIONIA
I nostri sei incursori finirono in prigionia. Ma dopo l’8 settembre de la Penne chiese e ottenne di rientrare in servizio con le forze dell’Italia libera, a fianco degli Alleati. A guerra finita, la meritata medaglia d’oro gli fu appuntata da quello stesso ammiraglio Morgan di cui aveva sabotato la nave. Quarantasette anni dopo, in una solenne cerimonia a Livorno, il figlio dell’ufficiale che lo aveva interrogato gli restituì l’orologio sequestrato al momento della cattura. Ancora oggi, presso la Royal Navy, l’impresa dei nostri incursori, tutti pluridecorati, e del loro comandante, suscita ammirazione e simpatia.
LA GRANDEZZA
Vista retrospettivamente, la grandezza di Luigi Durand de la Penne non risiede solo nel suo coraggio: durante il conflitto, decine di militari e di agenti segreti rischiarono e persero la vita in missioni anche più ardite; e non risiede nemmeno nel suo orgoglioso silenzio davanti al nemico: anche qui gli esempi di risolutezza furono migliaia. Risiede piuttosto nel rapporto tra i mezzi modesti e i risultati eccezionali, ottenuti con una progettazione meticolosa e un’audacia esecutiva nobilitata da una insolita virtù cavalleresca. Non solo. Il marinaio britannico aveva alle spalle una nazione imperiale, alleata delle due più grandi e potenti nazioni del mondo: era sicuro della vittoria, era spronato dalle parole del più grande statista del secolo, e aveva un tradizione di entusiasmo e di successi. I loro ammiragli, da Ramsay a Cunningham, erano aggressivi fino alla temerarietà, per loro la ritirata era inconcepibile. Il marinaio italiano era invece reduce da una serie di sconfitte dolorose e umilianti, che avevano rivelato l’impreparazione del Paese e l’inconcludente retorica del suo bellicoso quanto sconsiderato dittatore. E gli ammiragli dell’alto comando, un po’ per carenza di carburante, un po’ per inadeguata visione strategica, erano cauti fino all’inerzia. De la Penne ne era consapevole. Non agì per vendicare Taranto e Matapan: fece quello che gli imponeva il dovere. Distruggendo una flotta, e salvando migliaia di vite inglesi, salvò due volte l’onore della nostra Marina.
IN PARLAMENTO
Dopo la guerra, de la Penne fu ripetutamente eletto in Parlamento, con il partito liberale. Ma non si considerò mai un politico, e tantomeno un eroe. Tuttavia, caso raro, il Paese gli fu riconoscente. Forse per gratitudine, forse per far dimenticare le dolorose sconfitte di una guerra sciagurata, gli furono dedicati libri, film e documentari. Si spense il 17 Gennaio 1992, e fu sepolto sul cocuzzolo di Portofino, nel minuscolo cimitero vicino alla chiesetta di san Giorgio: un posto incantevole, che guarda il mare. Sostandovi, con riverente ricordo, ti vengono in mente le parole del poeta: «Dulce et decorum est pro patria mori». E comunque, per una tomba così, val la pena di morire.