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 2018  giugno 13 Mercoledì calendario

Anatomia delle emozioni tra cuore, faccia e cervello

Un tale, che di mestiere fa lo psicoantropologo, dopo aver vissuto negli Stati Uniti per molti anni torna nel suo Paese d’origine. Ritrova un vecchio amico di gioventù, e viene anche raggiunto da un altro amico, nato e cresciuto negli Usa, che fa lo psicologo clinico. I tre si frequentano per un po’. A un certo punto lo statunitense dice allo psicoantropologo, riferendosi al terzo uomo: «È un classico caso di depressione». In base a che cosa lo dice? In base al fatto che il locale (chiamiamolo così) spesso lascia tutto e tutti e se ne va da solo in montagna. Secondo lo psicologo clinico, isolarsi in quel modo per stare con i propri pensieri è un chiaro segnale di depressione. Invece lo psicoantropologo in quel comportamento non trova nulla di strano. Perché? Perché questa storiella si svolge nello Sri Lanka e il locale è un buddhista praticante, sicché «la meditazione gli avrebbe consentito di elevare il suo dolore per i mali del mondo oltre il Sé, caricandolo metafisicamente».
Il virgolettato è di Jan Plamper, autore di Storia delle emozioni (il Mulino, pagg. 532, euro 30, traduzione di Simona Leonardi). Plamper insegna sì Storia al Goldsmiths College, University of London, ma è tedesco, quindi comprensibilmente poco incline alla spettacolarizzazione dei sentimenti che tanto successo ha portato alla saggistica di stampo anglosassone. Raramente, nel suo libro, inserisce aneddoti come quello citato. Dal quale possiamo evincere che un cingalese, anche dopo prolungata americanizzazione, ha una visione delle cose differente da quella di uno statunitense a tutto tondo, a maggior ragione se è antropologo, mentre l’altro è clinico. Dell’amico locale, lo psicoantropologo, Gananath Obeyesekere, ha scritto: «Aveva generalizzato la propria disperazione come problema di esistenza ontologico, definito in senso buddhista sofferenza». Altro che una semplice depressione...
Insomma, come sottolinea a più riprese Plamper, fare la storia delle emozioni è un lavoraccio. Prima di tutto perché già definire che cosa sia un’emozione è arduo, se non impossibile: «tutti sanno cosa sia un’emozione finché non viene chiesto di definirla», affermavano negli anni Trenta due psicologi, usando le stesse parole di Sant’Agostino a proposito del tempo. Poi perché le variabili sono il combinato disposto del tempo, appunto, e dello spazio, delle epoche e del territorio. Come la mettiamo, per esempio, con gli Utkuhikhalingmiut, inuit canadesi, che non esprimono emozioni, ma si impegnano notte e giorno a reprimerle? E con gli Ilongot delle Filippine del Nord che quando vogliono togliersi un peso dallo stomaco si mettono a tagliare teste, sfogando, dicono, la ligot, la loro energia?
Qualunque cosa siano le emozioni, dice Plamper, due sono fondamentalmente le scuole di pensiero che si accapigliano fra loro per catturarle e catalogarle, come fossero farfalle da mettere nelle teche degli entomologi: da un lato l’universalismo e dall’altro il costruttivismo, cioè da un lato chi insiste sull’universalità della natura umana e dall’altro chi sottolinea il ruolo decisivo delle molteplici culture. La storia delle emozioni, nata con le Annales d’histoire èconomique et sociale, la rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, è un continuo botta e risposta fra gli uni e gli altri nel tentativo di dipanare i misteri dell’homo sentiens. E dunque, sotto con la «psicostoria», con l’«emozionologia», con strutturalismo, post-strutturalismo e post-poststrutturalismo. Lo studio delle emozioni dapprima si concentra sulle espressioni del volto che durano pochi attimi, poi sui comportamenti consolidati, infine, con le neuroscienze, entra nei cervelli.
Plamper ci va cauto, sui risultati (peraltro sempre parziali e contraddittori) di questo ramo, frondoso e lussureggiante, della biologia. In quanto storico, dunque umanista, non vede di buon occhio né il ritorno del meccanicismo, né, soprattutto, la moda originata dal «decennio del cervello», l’ultimo del secolo scorso, e alimentata persino da un’agenzia letteraria apposita, quella newyorchese di John Brockman. Insomma, diffida delle neuro-star tipo LeDoux e Damasio. Inoltre mette in guardia dal pericolo, sempre incombente, della commercializzazione delle emozioni, a esempio quando ricorda uno slogan pubblicitario come «i fioristi trasformano sentimenti in fiori». Per vendere fiori, ovviamente.
Molta acqua è passata sotto i ponti delle emozioni umane dall’Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey, da L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber, da L’autunno del Medioevo di Huizinga, da L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali di Darwin (un Darwin, questo, poco... darwiniano, poiché afferma che l’espressione delle emozioni è superflua all’evoluzione della specie), per arrivare a Paul Ekman. Il quale, fino alla fine degli anni ’50 psicologo all’Università della California di San Francisco, ha teorizzato le sei emozioni di base presenti in tutte le culture del mondo: felicità, rabbia, disgusto, paura, tristezza, sorpresa (poi allargate a undici). La figura di Ekman ha ispirato il personaggio del dottor Cal Lightman, nella serie tv Lie to Me, a capo di un’agenzia che decifra le microespressioni delle persone, collaborando con la polizia.
Anche questo, lascia intendere Plamper, è un effetto collaterale della più grande esplosione emotiva dell’era moderna: l’11 settembre 2001. Da lì in poi, la storia delle emozioni non può più essere quella di prima. Perché anche gli storici delle emozioni provano a loro volta emozioni. Comunque, per tutti vale quanto affermato da uno scrittore che non temeva la scienza, anzi la affrontava a viso aperto, Robert Musil. «Poiché sono flusso continuo, i sentimenti non si lasciano arrestare; dunque non si lasciano mettere sotto il microscopio; ciò significa che quanto più esattamente li osserviamo tanto meno sappiamo quel che sentiamo. L’attenzione è già un cambiamento del sentimento».