Il Messaggero, 13 giugno 2018
Salvatore Quasimodo, ed è subito mito. I versi immortali del Nobel più osteggiato
«M’illumino d’immenso», «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», «Ed è subito sera». Sono versi, questi, che ormai fanno parte del nostro linguaggio, indipendentemente dal loro vero, specifico significato. Questa può essere una prova della popolarità dei poeti che li hanno concepiti? La risposta è dubbia. Non tutti sanno (o ricordano) che il primo verso è di Giuseppe Ungaretti; il secondo di Cesare Pavese, mentre molti correttamente attribuiscono il terzo a Salvatore Quasimodo. Infatti, in vista di questo cinquantesimo anniversario della morte (14 giugno), ho fatto una mia piccola indagine su Quasimodo e ne è venuto fuori che la maggior parte dei miei interlocutori (del Nord, del Sud, colti, meno colti) alla frase «ed è subito sera» hanno correttamente associato il suo nome. Questo preambolo, per dire che il poeta, laureato con il premio Nobel per la letteratura nel 1959, gode di una popolarità che si può definire solida, nonostante il tempo trascorso da quando l’autore di Oboe sommerso (1932) era nella sua piena attività e nonostante le tante riserve espresse dalla critica più influente, ieri come oggi.
ERMETISMO
Salvatore Quasimodo, eminente rappresentante dell’ermetismo: nessun letterato italiano del Novecento ha raccolto tanti consensi e tante stroncature. Al punto che in sede critica si è arrivati a considerare le sue traduzioni più importanti della sua produzione poetica. Celebre la versione in lingua italiana dei Lirici greci (1940). In proposito per alcuni Quasimodo riuscì a fare poesia traducendo altra poesia, per altri (specie in campo accademico) si trattò di un’inammissibile manomissione. Tutto documentato: negli scritti che riguardano il suo privato, si evince che il poeta avvertì intorno a sé una sorta di avversione, se non addirittura persecuzione. «Uomo del Nord che mi vuoi minimo per la tua pace», scrisse in un risentito epigramma.
INSOFFERENZA
E in quell’«uomo del Nord» forse c’è il motivo che spiega l’insofferenza dei critici italiani (ma anche dei colleghi poeti) nei suoi confronti. Celebre l’incipit dell’articolo che Emilio Cecchi scrisse per il Corriere della Sera, quando, nel dicembre 1959, si ebbe la notizia della scelta degli accademici di Svezia: «A caval donato non si guarda in bocca»
«Credo che nessun paese, mai, abbia reagito come l’Italia letteraria ha reagito all’assegnazione del Nobel a Quasimodo. Come a una offesa», scriveva Leonardo Sciascia, nel 1984, quando ormai molto tempo era trascorso da quello scandalo letterario. E aggiungeva: «Juan Ramon Jiménez era fuoruscito, in esilio, quando ebbe il Nobel: ma se ne rallegrò anche la Spagna franchista. Né si può dire che Quasimodo fosse al di sotto della media dei Nobel» Lo stesso Sciascia si dava una spiegazione (o forse tentava soltanto di sondare fino a che punto la società letteraria fosse avvelenata dalle invidie, dagli odi per i successi altrui, dalle feroci frustrazioni). E questa sua spiegazione aveva a che fare con la terra d’origine di Quasimodo, la Sicilia.
ANTIPATIA
In proposito citava il poeta Lucio Piccolo, il quale «quando si crucciava di qualche critico dell’Italia del Nord che non capiva la sua poesia o non la degnava di attenzione, diceva: noi siciliani siamo antipatici». A proposito dell’antipatia per i siciliani, Sciascia faceva anche l’esempio di un critico letterario romano, Pietro Paolo Trompeo; oggetto dell’antipatia, in questo caso, lo scrittore e germanista Giuseppe Antonio Borgese. Dopo aver partecipato a un party organizzato in onore dell’autore di Rubè e di Golia, la marcia del fascismo, Trompeo scrive: «Peppantonio, che volgare padreterno! L’America e la vecchiaia l’hanno ancora più sicilianizzato». Forse, agli occhi di Cecchi, l’assegnazione del Nobel per la letteratura, aveva ancor più sicilianizzato Salvatore Quasimodo. Il quale va detto non faceva nulla per non apparire il siciliano che allora, come oggi, può suscitare antipatie. Tanto più che della Sicilia, dei siciliani, in letteratura come nel cinema, oggi come allora viene data una rappresentazione di tipo folcloristico, i siciliani il più delle volte delle simpatiche canaglie. Altro discorso va fatto per l’impegno politico di Quasimodo, autodefinitosi «poeta civile»; «resistenziale» la sua opera letteraria. In poesia, impegno e disimpegno, oggi, non hanno più senso. Può darsi che la sua passione politica, la sua scelta ideologica, il suo agire da scrittore nel sociale, spentesi le ragioni storiche che le avevano suscitate, abbiano prevalso sulla genuina ispirazione poetica, ma certi suoi versi restano nella memoria di generazioni, rappresentano il persistente sentimento di un popolo: «E come potevamo noi cantare / col piede straniero sopra il cuore».