La Stampa, 12 giugno 2018
Cina, dove la vita è impossibile l’arte può cominciare
L’uomo dai tratti mongoli, Enkhbold Togmidshiirev, infila in testa una pelle di cammello senza i fori per gli occhi. Getta secchi d’acqua su una montagnetta di terra e la impasta. Cammina tra la gente aiutandosi con due bastoni alle cui estremità ci sono quattro zampe di cammello. Ogni gesto, ogni urlo, è un tentativo di lenire la sofferenza dei regni animale, vegetale e minerale. La performance – che si svolge in parte nello scheletro di una tenda nomade dove un fuoco è acceso con sterco animale – passa dall’arte a un’intensa ritualità sciamanica che da antica diventa attualissima. Benvenuti a Yinchuan, la città cinese ai bordi della Mongolia che si sviluppa su un’unica direttrice costeggiata da grattacieli, piccole imprese, campagne, mercatini poverissimi e negozi dagli ideogrammi kitsch. Si tratta di un’area interetnica sincretista a maggioranza musulmana che finisce nel Deserto del Gobi.
«Starting form the Desert – Ecologies on the Edge», (iniziare dal deserto – ecologie dell’ambiente) è il titolo della Biennale di Yinchuan, curata da Marco Scotini che – con la collaborazione di Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xinghua – ha radunato 90 artisti provenienti da tutto il mondo. Il soggetto unico dell’esposizione – che non fornisce una lettura eurocentrica ma una visione plurale con moltissime scoperte asiatiche – è la Terra. L’idea nasce dalle pulsazioni geopolitiche del territorio rilevate dal curatore che, invitato dal Museum of Contemporary Art (Moca) di Yinchuan a curare l’attuale edizione, ha coinvolto artisti portatori di tradizioni, riti e visioni etiche.
Ci accoglie un altare confuciano di legno a gradoni del cinese Song Dong, The Center of the Word, simile a uno ziggurat con in cima la sabbia di 24 deserti. L’opera calpestabile è un luogo comunitario per la sosta e la meditazione. Di fronte c’è la casa mongola di fango ricostruita in scala 1:1 dalla slovena Marjetica Potrc. Spazio nomade, rapporto lavoro-natura, minoranze e letterature, sono gli argomenti portanti.
Perché partire dal deserto? «Perché», afferma il curatore citando Gilles Deleuze e Félix Guattari, «dove la vita è impossibile può iniziare una nuova dimensione ecologica». La vita nomade, non programmata, è il modello espresso dagli appunti di viaggio nei deserti del cinese Zhuang Hui o dai letti di corda delle tribù nomadi appesi a soffitto di Shiva Gore o ancora dalle foto di Kan Xuan che documentano le stanze di alberghetti cheap dell’Yinchuan come testimonianza dell’estetica della povertà. Quella miseria che, come una muffa, si sviluppa ai margini delle strade dei quartieri satellite di nuova costruzione.
Tutti gli artisti lavorano sul collasso ecologico non solo per documentare il degrado – come nel caso di Francesco Jodice e del francese Adrien Missika – ma creando concretamente piccole comunità agricole, come quella del senegalese Bouba Touré in Mali. Anche l’indiana Navjot Altaf ha elaborato progetti di disobbedienza civile con la comunità di Chhattisgarh drammaticamente spostata dal proprio territorio per ragioni speculative. La Biennale è un micro-laboratorio di una possibile nuova umanità, una comunità di sperimentazione artistica, scientifica e politica, mossa da basi storiche, spirituali e antropologiche. La complessità dei percorsi rispecchia le contraddizioni della modernità che dal colonialismo si sviluppano sino all’estinzione di villaggi, lingue e etnie.
Inoltre, la necessità di ristabilire un rapporto con gli elementi naturali è un’urgenza particolarmente sentita dagli artisti orientali. In molti dei lavori si percepisce struggimento e volontà di cura con una visceralità a noi lontana. Da un lato le posizioni politiche, dall’altro quelle etiche e ancestrali evocano le visioni pasoliniane. L’artista indonesiana Arahmaiani Feisal ha realizzato un mandala con terra e semi in attesa di germoglio. La performance eseguita all’inaugurazione, con il musicista Wukir Suryadi, è stata un’interpretazione laica e poetica degli insegnamenti buddisti. Suryadi ha suonato con uno strumento ricavato da un antico aratro per il riso, mentre la lentissima danza di Feisal ha creato una leggera aria di rinnovamento. E mentre tutti nel mondo si agitano, l’artista uzbeko Vyacheslav Akhunov, con ideogrammi tridimensionali, avverte «respira piano».