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 2018  giugno 12 Martedì calendario

Julen Lopetegui: “Non solo il falso 9, la mia nuova Spagna non avrà etichette”

A pochi giorni dalla partenza per la Russia, Julen Lopetegui non ha l’aria tranquilla davanti ai registratori nel suo ufficio di Las Rozas. È comprensibile. A 51 anni, il ct della Spagna, nato nella provincia basca di Guipúzcoa, affronta per la prima volta il campionato più importante e di sicuro lo aspettano giorni difficili e insonni. Alla guida della Roja da quasi due anni, vanta una serie di 20 partite senza una sola sconfitta. Ma nessuno guarderà al passato.

Russia 2018 sarà un’altra storia e il debuttante Lopetegui sembra avere una massima: il talento individuale al servizio della squadra.
Nella partita di qualificazione contro l’Italia al Bernabéu, la Spagna ha meritato molti elogi.
Eppure schierava ben otto giocatori che erano stati sconfitti dallo stesso rivale all’Europeo 2016. Quando ha assunto il suo incarico, si è ripromesso di cambiare poche cose?
«Cercavamo un’evoluzione, non una rivoluzione. Soprattutto perché abbiamo una squadra in ottima salute. Nel calcio, quando vinci, non tutto va bene, e quando non vinci, non tutto è sbagliato. L’evoluzione non comporta cambiare i giocatori, comporta la ricerca di risposte collettive a tutti i momenti del gioco. È questo ciò che cerchiamo di rafforzare rispettando le virtù di ogni singolo, che sono quelle che prevalgono nel calcio spagnolo».
In quale direzione ha cercato di fare evolvere la squadra?
« Volevo che fosse più completa, con le migliori risposte collettive possibili in attacco e in difesa».
La Roja è già arrivata al punto di evoluzione che voleva?
«I giocatori hanno dimostrato una grande ambizione al servizio di tutta la squadra. L’ho pretesa e gliene sono grato al tempo stesso».
Con lei hanno giocato contemporaneamente Silva, Thiago, Rodrigo, Iniesta, Isco...
Molte persone nello stesso ruolo, ma nella nazionale il gruppo funziona con grande naturalezza. Come ha fatto?
«I giocatori hanno capito che il fatto di avere dei privilegi non li esenta da una serie di responsabilità. E non mi riferisco solo ai momenti in cui non abbiamo la palla. Dobbiamo giocare in modo veloce, di prima, mantenere la squadra sempre aperta e avanzare.
Questa mobilità, questa dinamicità, credo ci abbia fatto giocare bene.
Ma tutto ciò con un obiettivo chiaro: il gol. A volte abbiamo più spazi per attaccare e dobbiamo dare risposte diverse e, a volte, dobbiamo ripiegare in difesa e c’è da lavorare sullo spazio».
Ramos, Silva e Iniesta sono gli unici sempre presenti in tutti i grandi appuntamenti dal 2008.
È rimasto sorpreso dalla loro risposta? Non si è sentito guardato con scetticismo, come un allenatore non all’altezza?
« No. Hanno reagito proprio come mi aspettavo. I giocatori cercano risposte, proposte e soluzioni. Noi abbiamo cercato di dargliele e questo ha creato un ottimo rapporto. Un rapporto onesto, chiaro, conciso e professionale».
E il rapporto con sé stesso, vedendosi nel ruolo di ct?
«L’esigenza di allenare la nazionale spagnola ti costringe a essere consapevole della responsabilità che hai, non solo nei riguardi dei giocatori, ma anche di fronte ai media e alla società».
Da quando è stato nominato, si ha la sensazione che si senta molto responsabile, quasi ossessionato dall’essere all’altezza.
«Più che un’ossessione è un sogno che mi entusiasma. È il mio modo di sentire questa professione. Non sarebbe diverso al servizio di una squadra qualunque».
Preparare una Coppa del mondo è molto diverso dall’allenare una squadra per i Mondiali Under 20. La preoccupa una lunga convivenza con un gruppo di élite?
«No. Mi preoccupo delle cose quando accadono. Cerchiamo di occuparci di ciò che dobbiamo fare, ovvero di preparare la squadra per la prima partita di venerdì, con il Portogallo. Ci preoccupa questo, non la convivenza».
Dedica più tempo ad allenare l’attacco o la difesa?
«Mi dedico a tutto. Penso a come attaccare meglio, a come difendere meglio, a come gestire meglio le partite. Dare risposte collettive ai problemi del gioco è l’essenza di questo lavoro. Ecco perché passiamo molto tempo a studiare e visionare le partite».
Quale aspetto tattico le è sembrato più complesso?
«Siamo una formazione che cerca di tenere la palla. Ma non sempre ci riusciamo, e dobbiamo saper gestire quei momenti. Allora bisogna lavorare di squadra.
Quando abbiamo il pallone, l’obiettivo primario è fare male all’avversario, e quando non ce l’abbiamo, riprendercelo il più rapidamente possibile. Il gioco di oggi ci obbliga a essere molto ambiziosi e a reagire subito quando perdiamo il possesso. Se siamo ben disposti in campo ci saranno più probabilità di successo. Ho cercato di fare proprio questo, di sistemare quattro cosette che fanno parte dell’ordine naturale dei giocatori che abbiamo».
A volte si ha la sensazione che, dopo essere andata in vantaggio, la squadra voglia continuare a tenere palla ma arretrando e i giocatori non sembrano a proprio agio.
«Cerchiamo di evitare che l’avversario ci domini. Non siamo una squadra particolarmente veloce nei passaggi. Ma insisto: una squadra che aspira a essere completa non deve calare in nessun momento del gioco».
Sembra che il meno definito sia il numero 9. Sa chiaramente che cosa vuole o assisteremo a una rotazione permanente tra Rodrigo, Aspas e Costa?
«Sono profili diversi. Cerchiamo di avere risposte diverse in quella posizione anche in funzione dell’avversario. A volte capisci che è meglio avere un riferimento definito e a volte no».
Contro quali avversari è meglio avere un riferimento più definito?
«Non sarei troppo categorico su questo. Se giochi con una punta, classica o no, la cosa più importante è ciò che tutti gli altri giocatori danno alla squadra collettivamente, con e senza palla. Se necessario, potremmo anche giocare con due punte».
Non crede che il centrocampo spagnolo si adatti meglio a una punta non troppo classica?
«Ci sono degli esempi con cui si può dimostrare chiaramente che con una punta cosiddetta classica o a zona la squadra può funzionare. E così anche quando, senza nessun uomo fisso in attacco, cerchi di arrivarci con più uomini. Tutto ha i suoi pro e i suoi contro. Molto al di sopra di questo c’è quello che mi sa dare la squadra».
Ma il comportamento della squadra cambia in virtù della
punta.
«Sono sfumature. Siamo una squadra che cerca di entrare in area con tanti giocatori. Che ci riusciamo o no, è un’altra cosa. Non mi piacciono le etichette, come il ruolo di punta classica. Il calcio è molto mutevole. Oggi si chiede a ogni calciatore di padroneggiare molti aspetti del gioco. Prima era diverso.
Era un po’ più primitivo. La specificità contrasta con i giocatori moderni».
Busquets, fondamentale per tutti gli allenatori, è il giocatore più singolare della squadra perché non ha un ruolo chiaro. La preoccupa?
«Busquets è stato ed è decisivo nella sua squadra e nella nazionale, senza alcun dubbio. Ma non ci sono due uomini uguali. Penso che la sua grande qualità, oltre a quella di essere un ottimo giocatore, è di avere una vera passione per il suo mestiere».
Dopo il ritiro di Xabi Alonso ai Mondiali 2014 in Brasile, la squadra sembra non aver trovato la nuova spalla di Busquets. Koke, Thiago, Saúl, Illarramendi ...
«L’importante è che la squadra reagisca con grande naturalezza e solidità alle assenze di giocatori molto importanti e superi questa difficoltà. Questo aumenta l’importanza del gruppo».
Come ci si sente ad essere tra i favoriti?
«Non mi dispiace che si coltivi questo sogno. Se la squadra ha generato questa speranza, è la benvenuta. Le grandi squadre suscitano questa aspettativa. Quello che faremo in questi Mondiali dipenderà dalla risposta che sapremo dare sul campo. Partiamo con un biglietto per tre partite, le altre ce le dobbiamo guadagnare».
Se si stesse bevendo una birra con gli amici, gli direbbe che la Spagna è la favorita?
«Lo farei di sicuro, ma ora non sto bevendo una birra!».