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 2018  giugno 12 Martedì calendario

Il ballo di Mette: “Seni e sederi sono ovunque anche in scena”

Chi ama guardare magari esulterà: ballerini e ballerine che furiosamente, come amanti impudichi, si accoppiano, compiono assalti sessuali, si scambiano partner, si apprestano a rapporti orali... Eppure c’è poco di desiderabile, di seduttivo e anche di sporcaccione in quello che fanno. Nascosti in tutine azzurrine che cancellano la loro identità di genere, i corpi indistinti, alieni di questa strana “orgia” compongono una danza inquietante di posizioni ridicole e plastiche, astruse e conturbanti che rivelano il linguaggio del sesso sotto una nuova luce.
To come (extended) è uno spettacolo che esplora, ma in modo tutto sommato casto, le relazioni sessuali. Lo firma una soave e graziosa coreografa danese, la 38enne Mette Ingvartsen e si vedrà il 23 giugno all’Arsenale di Venezia per la Biennale Danza diretta dalla canadese Marie Chouinard: un programma eclettico che si apre il 22 con la cerimonia di consegna del Leone d’oro a Meg Stuart e al suo spettacolo, Built to last, e proseguirà tra performance e teatro-danza con artisti come Faye Driscoll, Jacques Poulin-Denis, la capoverdiana Marlene Monteiro Freitas cui andrà il Leone d’Argento, Francesca Foscarini e i nuovi Solos et duos della stessa Chouinard.
Il lavoro di Mette è una investigazione del nostro corpo sessuale e dei condizionamenti sociali che subisce, lavora sui rapporti che s’innescano in un contesto privato e interroga la nozione di libertà, i meccanismi del desiderio, ma in un certo senso anche quelli della danza perché nascondendo le identità “reali” dei ballerini è come se cancellasse la presenza umana.
Un “paesaggio postantropocentrico”, lo ha definito Daniel Blanga-Gubbay, collaboratore di Silvia Bottiroli la quale, già tre anni fa, aveva presentato al Festival di Santarcangelo un’installazione performance di Mette dal titolo esplicito, 69 positions.
Come mai questa fissazione per il sesso?
«Siamo circondati da immagini di corpi sessuali — spiega Mette Ingvartsen, che si è formata alla prestigiosa P.A.R.T.S., la scuola di Anne Teresa de Keersmaeker e oggi è membro del team artistico guidato da Chris Dercon alla lanciatissima Volksbühne di Berlino — Spot, internet, cinema, riviste... è tutto un vedere pelle, tette e culi che non sono più relegati alla camera da letto, ma fanno parte della nostra vita quotidiana, fino a influenzare i nostri comportamenti. Con la mia compagnia stiamo lavorando da 5 anni, abbiamo fatto ricerche, dai movimenti di liberazione sessuale degli anni Sessanta del Novecento alle diverse pratiche sessuali, non certo per sbirciare dal buco della serratura, ma per esplorare in che modo qualcosa che attiene esclusivamente allo spazio privato come è il sesso subisce influenze dal contesto sociale e collettivo e modifica il nostro modo di vivere il corpo.
Molto interessante si è rivelato in questo senso lo studio delle relazioni nelle orge».
E perché proprio le orge?
«Perché hanno un doppio significato: da un lato il senso comune, dove si fa sesso in modi diversi. Dall’altro un’occasione per esplorare relazione nuove, un esperimento di come stare insieme, talvolta anche in forme più libere».
Perché lei cancella le identità sessuali dei suoi danzatori?
«Mi interessa vedere la qualità dei comportamenti sessuali, le diverse posizioni di dominio, di potere, indipendentemente dalle differenze di genere, dalle facce o dalle singole individualità. Mi interessano le sovrastrutture sociali nei comportamenti sessuali, non il fare sesso. E comunque nello spettacolo c’è una parte in cui poi i ballerini si mostrano, anche nudi, e un’altra ancora, solo vocale, in cui riproduciamo i suoni dell’orgasmo: buffo, ma anche interessante. Durante l’orgasmo ansimiamo solo perché abbiamo imparato che si fa così. È culturale, non organico. In Giappone, l’orgasmo è tutto un’altra cosa: un suono acuto, di un attimo».
Così si rompe il confine del riserbo, del pudore.
«La questione del privato oggi è molto importante perché con i nuovi media si sono rotti molti confini. Oggi il privato è qualcosa da far circolare sui social. Pensi agli spot con quelle immagini stereotipate di donne dove non c’è alcuna elasticità nel modo di intendere la sessualità. Il mio lavoro è anche creare lo spazio attraverso cui guardare il privato fuori dal controllo sociale e culturale».
C’è pornografia?
«No, non trovo che il mio lavoro sia pornografico, non lo è più di tanti spot, film o manifesti che si vedono in giro».
Il sesso può anche essere molestia. Che ne pensa?
«Il mio spettacolo è antecedente a #MeToo. Tocca, certo, il tema del potere nelle relazioni private, ma in modo più articolato, mostrando per esempio come, specie nelle orge, certi esperimenti di giochi di potere possano anche essere legati al piacere. Dipende, insomma. Ma con questo non nego la violenza delle molestie e degli abusi di cui mi occupo in un altro lavoro, Pornography».
Cosa c’entra tutto questo con la danza?
«Erotismo e sensualità fanno parte della danza direi quasi per statuto e non c’è separazione tra danza e discorso pubblico. E comunque questi lavori sono un capitolo della mia storia. Per il nuovo progetto, Moving in concert, siamo su un altro terreno, stiamo sperimentando le connessioni tra modi diversi di stare insieme e tecnologia».