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 2018  giugno 12 Martedì calendario

Fenomenologia del miliardario

A fronte di tanta letteratura pauperista, in cui il punto di vista degli umili e dei derelitti è non solo prevaricante ma moralmente enfatizzato, ci piace per una volta volgere lo sguardo sull’emisfero al rovescio, quello dei cosiddetti nababbi. Lo faremo partendo da un dettaglio curioso nella mitologia milionaria: quando Trump nacque, nel giugno del ’46, ancora non esisteva Zio Paperone: l’aureo zio dalle folte basette bianche è in realtà più giovane del Donald dalle fulgenti chiome, dato che il fumetto Disney avrebbe visto la luce solo un anno e mezzo più tardi, disegnato da Carl Barks che ne fece un formidabile ritratto del misantropo danaroso, impermeabile a qualunque sentimento che non fosse l’amore sperequato per il proprio patrimonio. L’attaccamento di Paperone per il suo oro assume com’è noto proporzioni surreali, tali da impressionare i bambini sottoforma di monito morale non così lontano dal modello letterario del cartoon, lo Scrooge di Charles Dickens, ovvero il vecchio capitalista incarognito che solo una sarabanda spiritesca muove a compassione nel gelo della veglia di Natale. È il ritratto di un’avarizia patologica, tale da distorcere la visione stessa del genere umano, improvvisamente trasformato in un’orda di famelici questuanti.
Come dire che il denaro è quasi certa garanzia di baratro, secondo un antico copione che per secoli ha popolato il nostro immaginario di personaggi dal portafogli pieno e dal cuore puntualmente arido, dall’Aulularia plautina all’Arpagone di Molière, dal mercante Pantalone dei comici dell’arte fino al pingue Mazzarò di Giovanni Verga. Ma fu il mito greco a occuparsi per primo della ricchezza, della sua voracità, degli effetti perversi che essa comporta.
E lo fece con il ritratto del re frigio Mida, premiato dal dio Dioniso con il famoso tocco che tramutava qualunque cosa in oro; ma se questo tratto della leggenda è a tutti noto, molto meno lo è l’epilogo della vicenda, con il nostro Mida reso letteralmente folle da questa sua esistenza nei panni di Goldfinger, incapace perfino di cibarsi o di carezzare un cane senza che quello divenisse una riserva aurea degna di Fort Knox. Sintesi: per tornare felice, Mida implorò che gli fosse tolto il dono. Non così diverso è l’apologo del Pluto, la commedia di Aristofane del 388 a.C. in cui genialmente ci si propone di risolvere le ingiustizie restituendo la vista al cieco dio della ricchezza, con il risultato inatteso che tutta l’umanità si ritrova d’un tratto sì abbiente, ma rissosa e irrisolta più di prima.
Insomma, per secoli i soldi non hanno portato sorrisi. E qui la sorpresa: fu per correggere questa scura fama che già nell’Ottocento molti miliardari cominciarono a dedicarsi alla filantropia, elargendo donazioni agli orfanelli o finanziando borse di studio, purché portassero sempre bene in vista il marchio di famiglia. Si tratta di una delle più impressionanti operazioni di restyling nella storia della modernità: il capitalismo – che dalla notte dei tempi aveva sempre accettato e subito l’odio collettivo – scelse di correggere la rappresentazione di sé, proponendosi deliberatamente di intercettare non solo il pubblico consenso, ma addirittura l’affetto.
È una rivoluzione senza precedenti, se si pensa che Machiavelli nel Principe (capitolo V) sosteneva senza mezzi termini che l’ostentazione della ricchezza bastasse a escludere i campioni del lusso dal novero dei buoni politicanti. Oggi invece i milionari sono amatissimi proprietari di squadre calcistiche, sono mecenati non d’arte ma di palinsesti tv, sono icone da copertina e da questa loro love-story con le masse discende naturalmente un proliferare di ascese politiche. Altro che Paperone chiuso nel suo deposito blindato: quel fumetto fotografava una tipologia di ricchezza ormai quasi del tutto tramontata. Ma l’aspetto più interessante della questione sta nel territorio ibrido in cui il milionario filantropo cede il passo al misantropo, e viceversa: qui si coglie il nervo scoperto dell’operazione, o se vogliamo il senso profondo del maquillage.
Forse la risposta ce la fornisce colei che nei primissimi anni del 1900 inaugurò di fatto il filone del giornalismo d’inchiesta.Si chiamava Ida Tarbell, e promise letteralmente guerra a uno degli uomini più ricchi mai comparsi sul pianeta terra: John D.Rockefeller.
Fra i due v’era stato, per così dire, qualcosa di personale, essendosi Rockefeller liberato – con metodi piuttosto discutibili – di tutti i marchi concorrenti sul mercato petrolifero del tardo Ottocento, compresa la ditta in cui operava il padre della Tarbell.
Per sua sfortuna, la ragazza non demordeva facilmente, e si diede per anni a stilare un infuocato dossier contro la Standard Oil Co. e il suo potentissimo magnate. Ne nacquero alcuni articoli che ebbero un’eco senza precedenti, per la semplice ragione che Rockefeller, filantropo e benefattore, veniva per la prima volta smascherato pubblicamente come un profittatore senza scrupoli.Dall’alto del suo trono, egli tuonò e lanciò anatemi, infittendo le donazioni benefiche per salvare la faccia. Ma non servì, perché neppure dieci anni dopo, davanti alle miniere di Ludlow, in Colorado, una protesta dei suoi dipendenti fu sedata nel sangue e chi aprì il fuoco contro donne e bambini (identici a quelli che Rockefeller carezzava negli orfanotrofi). Dura cosa far convivere umanità e profitto.
Per citare Ida Tarbell: non può nascerne che ipocrisia.