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 2018  giugno 12 Martedì calendario

La donna che salva l’arte dall’età digitale

In una celebre scena del Mercante di Venezia la bella Portia, signora dell’immaginaria Belmont, riceve i pretendenti alla sua mano che, per ottenerla, devono indovinare quale degli scrigni nasconda il suo ritratto. Trovare la sua immagine dipinta significherà ottenere il suo cuore: il piccolo ritratto non solo ne evoca il volto ma, come a lungo ribadito nella letteratura e nella poesia dei secoli precedenti, prende il posto della persona raffigurata. Come già nelle collezioni antiche, al ritratto viene conferito il potere quasi magico di superare, grazie alla pittura, la distanza geografica, i limiti temporali dell’esistenza umana, la fragilità del corpo e la vulnerabilità della bellezza. Non dal Mercante di Venezia ma da Amleto, altra opera di Shakespeare disseminata di riferimenti al ritratto, è tratto il verso His portrait in little, titolo di uno dei film che alla National Portrait Gallery ha accostato le opere di Tacita Dean a quelle conservate nella galleria e scelte dall’artista stessa. Il riferimento all’esecuzione di ritratti in miniatura di sovrani e familiari nell’Inghilterra del Cinque e del Seicento è il terreno di confronto scelto dall’artista britannica, parte di un dialogo che si svolge quasi contemporaneamente, in luoghi poco distanti, con altri generi della pittura, la natura e morta e il paesaggio.
Il suo film, che scorre su uno schermo piccolo come quello di un telefono, suscita anche nelle dimensioni il rapporto con l’arte della miniatura, una accezione particolare del ritratto che artisti come Nicholas Hilliard e Isaac Olivier, contemporanei di Shakespeare, praticarono nei primi decenni del Seicento e a cui vennero dedicati anche testi teorici, come il The Art of limning dello stesso Hilliard. Preziosi e virtuosistici, i ritratti portatili di grande successo presso la corte inglese sono stati esposti accanto al film di Dean, che si concentra su tre attori di diverse generazioni, grandi interpreti diAmleto. Filmando separatamente e in diversi momenti della loro giornata Ben Wishaw, Stephane Dillane e David Warner, mettendone a fuoco gesti e espressioni, il film recupera nel silenzio e nello scorrere dei loro gesti la loro dimensione interiore, quella che un altro specialista del ritratto, alla fine dell’Ottocento, Henri Fantin Latour, chiamava la musica dell’anima, gli accordi sottili e intangibili dei sentimenti, fine ultimo del ritratto interiore.
L’opera di Dean rimette dunque al centro della riflessione dell’artista un tema fondamentale, la capacità dell’arte di misurarsi con la figura umana, di mostrarla e sottrarla all’incalzare del tempo pur utilizzando dei materiali anch’essi potenzialmente deperibili, come tele e colori e, nel suo caso, il film tradizionale.
È nota la passione di Dean, nata nel 1965, nominata al Turner Prize, per tutto ciò che sta per scomparire; la sua strenua difesa di elementi considerati obsoleti, la celluloide per esempio, il rifiuto di adoperare il digitale, ritenendo il film tradizionale una laboriosa forma di espressione, non solo un aspetto tecnico. A qualche passo di distanza, il rapporto con le dinamiche creative del passato si è ripetuto alla National Gallery, questa volta scegliendo come contraltare di altri due film alcune nature morte, di secoli diversi, dalle collezioni del museo. Anche la natura morta, genere a lungo considerato minore nella gerarchia accademica, proprio perché ritrarre elementi naturali “da fermo” implicava la perizia manuale, la cura nel copiare lentamente, piuttosto che la dimensione intellettuale dell’inventio, ha molto a che vedere con il trascorrere inevitabile del tempo e con la riflessione sulla caducità della bellezza. Orologi e petali, ma talvolta più eloquenti teschi e topolini divoratori si insinuano nelle nature morte nordiche, fra fiori e cristalli, sulle tavole ricolme di oggetti lussuosi, immobili e silenziosi, simboli di vanità ma, una volta abbandonati e indagati, anche di meditazione.
The Prisoner pair, il film dai fotogrammi lentissimi che analizza la superficie delle “pere prigioniere”, una ricetta francese in cui i frutti sono sigillati in un barattolo di vetro, costringe lo spettatore a una osservazione rallentata, lo porta per gli undici minuti della sua durata nello spazio dell’attesa, lo confronta con l’assenza di movimento, con la tensione a cogliere quello minimo generato dal liquido intorno alla buccia. Così, nel silenzio e ancora una volta nelle piccole dimensioni, lo sguardo riguadagna i tempi giusti per comprendere lo spazio senz’aria e senza rumore del piccolo immobile sparviero di Jacopo de’ Barbari, dipinto fra Venezia e la Germania all’inizio del Cinquecento, della Tazza con la rosa di Zurbarán, dove intorno al 1630 gli oggetti in genere allegorici delle virtù della Vergine compaiono isolati dal tema sacro, misteriosi e concentrati. Opere essenziali e veramente “da fermo”. Fino al 12 agosto è aperta anche la terza tappa del percorso dedicato all’artista nel centro di Londra.
Nelle sale appena inaugurate della Royal Academy si conclude questa non intenzionale ma progressiva rivitalizzazione dei generi tradizionali, con il lavoro dedicato al paesaggio, uno studio lenticolare, appassionato e con un respiro universale che avvicina il tema a quello del ritratto, anzi lo rende di nuovo quasi sinonimo: “ritratto di un paese” “ritratto di una città”, si diceva nei documenti del Seicento per descrivere le vedute. Dean sostiene l’aspetto casuale e tortuoso, la coincidenza e imprevedibilità nel processo creativo dell’artista, ma Landscape è di nuovo un concetto cruciale e di lunga durata per la storia della pittura, che si accompagna da secoli al senso del viaggio verso paesi e luoghi da studiare a filo di matita e che dalla fine del Settecento dà voce in Inghilterra e da lì nel resto dell’Europa allo sgomento romantico dell’artista di fronte alla vastità e alle forze imperscrutabili del cosmo.
Ancora una volta, il tempo è protagonista, perché ciclicamente mostra il suo potere di mutare lo scenario naturale: la scansione delle ore, dei giorni e delle stagioni modifica il paesaggio e costringe di nuovo l’artista e lo spettatore sul bordo dell’annebbiamento e della scomparsa, alle prese con le eclissi, con le valanghe e con le nuvole, evocati da film e da vecchie cartoline su cui Dean disegna e cancella.
Sono segni che vanno osservati con cura e, di nuovo, film che vanno seguiti con attenzione e quasi trattenendo il respiro: solo così non solo il paesaggio, ma anche gli oggetti in posa, i gesti e gli sguardi dei personaggi acquistano storia e sostanza.