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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Francesco Piccolo non scorda quel derby tedesco del ’74 che lo battezzò comunista. Intervista

Da ragazzino, a Caserta, giocava a basket, poi un giorno si è stufato e ha deciso che voleva dedicarsi alla scrittura. Francesco Piccolo oggi ha cinquantaquattro anni, ha vinto un premio Strega con Il desiderio di essere come tutti, ma a modo suo continua a giocare perché nonostante i mille impegni come scrittore, sceneggiatore, autore tv dà l’idea di non prendersi mai troppo sul serio. Al momento sta scrivendo tra le altre cose la seconda stagione dell’Amica geniale, mentre a settembre consegnerà il nuovo romanzo.

Nel “ Desiderio di essere come tutti” racconta di essere diventato comunista dopo la partita tra le due Germanie ai mondiali del 1974.
«Può sembrare strano che uno diventi comunista per un gol. O riuscire a individuare precisamente il minuto esatto in cui si diventa comunisti. Non so neanche se Berlinguer o Fidel Castro abbiano mai saputo il minuto esatto in cui sono diventati comunisti… (ride, ndr). Sarà una cosa scema ma io invece lo so».
Il 78° minuto, quando segna Jürgen Sparwasser.
«Avevo dieci anni, ero con mio padre, eravamo due maschi che vedevano insieme i mondiali. Quel giorno scoprivo di stare dalla parte dei deboli, della Germania est, mentre mio padre era dall’altra. Un gol in un mondiale ha segnato le scelte di una vita».
I mondiali legano storia personale e del paese?
«Uniscono fatti privati e pubblici. Contengono tutti gli elementi di una grande narrazione epica: l’attesa, la casualità, il destino, e la partita è solo una parte di questo racconto. D’altra parte si giocano ogni quattro anni e per alcuni giocatori sono l’ultima occasione per diventare eroi. A Maradona nell’86 capitò di essere al massimo della potenza, ma può succedere che un grandissimo giocatore salti un mondiale. Lorenzo Insigne quest’anno sarebbe stato un protagonista in Russia, e invece dovrà aspettare».
Tutto come in un plot romanzesco?
«In ogni partita c’è un prima, un durante e un dopo. Anche i reality televisivi sono costruiti così. A MasterChef o X Factor non contano tanto la canzone o la ricetta, ma i pianti, le rivalità, le attese».
E tra gli scrittori di calcio ha delle preferenze?
«Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano, Febbre a 90° di Nick Hornby. Da ragazzino ho amato un libro di Oreste del Buono su Gianni Rivera intitolato Un tocco in più. E mi piace tantissimo un racconto di Michele Mari, I palloni del signor Kurz. Parla di bambini che giocano a pallone in un cortile».
Perché?
«Alle volte le cose piacciono per estrema vicinanza. Da piccolo giocavo a pallone nel mio cortile. Capitava che il pallone finisse di là dal muro e per recuperarlo bisognava andare nell’altro condominio e chiederlo a una signora incazzata nera che a volte non ce lo ridava. La storia di Mari è simile, racconta di un tizio che non restituisce i palloni ma se li tiene per sé e li colleziona».
Il calcio narrato dai sudamericani è diverso?
«Forse per i sudamericani ha una valenza sociale più grande quindi gli scrittori hanno avuto più facilità a parlarne. Gli italiani del passato hanno avuto più remore».
Tra i cultori c’era Pasolini, che lo paragonava a un sistema di segni, a un linguaggio.
«Pasolini era un vero appassionato, giocava lui stesso. Anche Bianciardi lo amava, firmava una rubrica sul Guerin Sportivo. Ma la letteratura italiana ha amato di più gli sport poveri, quelli faticosi come il ciclismo».
Da quando è diventato un’industria il calcio ha perso il suo aspetto eroico?
«Anche nel calcio, come in quasi tutto, tendiamo a dire: era meglio prima. Siccome il calcio è diventato ricco si crede che non sia più lo stesso. Non è vero, l’epica calcistica esiste ancora, compresa l’epica fallita della qualificazione ai mondiali o l’impresa della Juve che sta per vincere all’ultimo minuto a Madrid e poi non ce la fa. Una partita alla fine è sempre una partita, anche se non si gioca più con i pantaloncini tenuti con l’elastico».
È solo una questione di nostalgia?
«Quando eravamo ragazzi ascoltavamo alla radio Tutto il calcio minuto per minuto, e sognavamo che un giorno questa diretta da tutti i campi la vedessimo in tv. Quando è successo, ho sentito dire: ti ricordi com’era più bello alla radio? Abbiamo il vizio del passato, del calcio degli anni Sessanta, quando i maschi andavano a vedere la partita e le donne rimanevano a casa».
E molti intellettuali simulavano superiorità.
«Bisognava mostrarsi colti e nascondere le passioni. Era un’Italia in cui c’era ancora il confine tra cultura alta e cultura bassa. Adesso si può raccontare una partita come si racconta un libro».