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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Come ti ammazzo il prof di scrittura

Noi non siamo marionette nelle sue mani!”. Il ragazzo Antoine sbotta contro la maestra di scrittura creativa. Lei lo guarda spaventata. Il workshop estivo rischia di naufragare. Nel suo nuovo film, L’atelier, Laurent Cantet — Palma d’oro a Cannes per La classe dieci anni fa — riparte da un microcosmo didattico. Qualcuno che insegna, qualcuno che dovrebbe imparare. Siamo nella Francia del sud, sulla costa di La Ciotat, non lontano da Marsiglia; i ragazzi sono invitati a scrivere a più mani un racconto sulla loro realtà — il vecchio cantiere navale in cui erano impiegati molti loro familiari; gli yacht dei ricchi; la noia e la paura di avere davanti troppe porte chiuse. «Quelle porte dovrebbero essere aperte, per quei giovani, ma non è così, e loro lo sanno», spiega Cantet. I più non hanno voglia di raccontare ciò che gli sta intorno, preferiscono evadere, costruire storie che somiglino al videogame con cui il film si apre. Così, fra la sofisticata scrittrice parigina Olivia e i suoi corsisti sale la tensione, e sale anche all’interno del gruppo: Antoine non nasconde più né la sua rabbia, né le sue convinzioni razziste. Lo ritroveremo con una pistola in mano, pronto a puntarla contro la sua professoressa.

Se in “A tempo pieno” — partendo dal caso Romand, lo stesso che ha ispirato “L’avversario” di Carrère — lei ha raccontato una vita fittizia vissuta come reale, in questo film sembra quasi rovesciare il discorso.
«Sì, il protagonista di A tempo pieno, per non vivere una vita da predestinato, se ne creava un’altra proprio come farebbe uno sceneggiatore. Solo che vivere esclusivamente di finzione, alla lunga, non è possibile. Quanto ai ragazzi dell’Atelier, trovano semplicemente noiosa la loro quotidianità. Domandano all’insegnante: perché dovremmo scrivere di La Ciotat? Non è interessante. Perché non possiamo ambientare la nostra storia a New York o a Boston? Per uno di loro, Antoine, il desiderio di finzione finisce per contaminare la vita vera. Ma forse lo aiuta anche a rompere certi schemi e a cambiare la situazione».
Che cosa la affascina delle dinamiche scolastiche, della vita di una classe?
«In generale, mi interessa capire cosa succede quando persone sconosciute si trovano a dover condividere uno spazio chiuso. Forse in tutti i miei film c’è un’attenzione a qualche microcosmo sociale, all’unità minimale in cui è possibile cogliere, in piccolo, tutte le relazioni, i legami di affetto e di potere, che possono incidere anche con violenza. E poi mi piace avere a che fare con qualcosa di indefinito, con un organismo in trasformazione…».
I partecipanti al workshop estivo non hanno grande fiducia nella scrittura e nella letteratura. La sentono lontana dalla realtà, in qualche modo falsa. Anche la scrittrice, Olivia, ha qualche imprevisto cedimento. E lei?
«In una scena del film, commentando a voce alta, quasi per sfida, la pagina di un romanzo pubblicato da Olivia, lo studente Antoine le rimprovera l’uso di un aggettivo. Gli pare la dimostrazione della distanza di lei dalle cose di cui scrive. E d’altra parte è convinto che non sia possibile scrivere qualcosa che non si conosce. Olivia difende l’aggettivo e sé stessa, vuole dimostrargli che lo scrittore può — anche “ per procura” — scrivere di tutto grazie alla propria sensibilità. Io, pur amando la letteratura, mi sento provocato da entrambe le posizioni. Questo film mi ha costretto a pormi domande impegnative sul lavoro che faccio, sulla distanza fra il creatore di un’opera e la materia di quell’opera, sulle scelte tecniche, sul rischio di strumentalizzare il racconto, i personaggi, a volte anche gli attori».
Per questo sul set lascia spazio all’improvvisazione?
« Più che scrivere tutto in sceneggiatura e poi fare le pulci al testo, quando giro preferisco ascoltare gli attori, lasciarli liberi di fare qualcosa di diverso, di istintivo, perché portino fuori insieme al loro talento il loro vissuto. Mi interessa il loro punto di vista, la loro reazione emotiva. Per La classe i ragazzi non conoscevano la sceneggiatura, le scene le abbiamo costruite via via sul set. Per quanto riguarda L’atelier le tre settimane prima delle riprese sono state a tutti gli effetti una sorta di workshop, di seminario, in cui gli attori hanno preso confidenza con i personaggi, costruendoli insieme a me».
Da un film sulla scrittura non ci si aspetterebbe una pista quasi thriller. L’aveva preventivata?
«Quando un personaggio come Antoine — così perduto, così indeciso — ha una pistola in mano, tutto può accadere. Fa paura perché lui stesso non sa cos’ha in mente. Sapevo però di doverlo portare verso la fine del racconto e insieme verso la fine di qualcosa nella sua vita. Mi piace pensare che la sua presa di coscienza, il suo cambiamento passino anche dal lavoro all’atelier, da ciò che sta scrivendo insieme agli altri; e che la sua vita vera, in meglio, sia l’effetto di una storia di finzione».