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 2018  giugno 10 Domenica calendario

Sintetici e soffocanti: le afghane contro i burqa fatti in Cina

Un pezzo di stoffa e una storia lunga duecento anni. A fine Ottocento il chadri, nome persiano del burqa, era uno status symbol. Lungo fino ai piedi, di seta, per lo più blu (ma anche bianco, marrone o verde, a seconda delle regioni), con una strettissima grata all’altezza degli occhi, la leggenda narra che venne introdotto dallo sceicco Habibullah Kalakani che lo impose alle duecento donne del suo harem per «non indurre in tentazione» gli uomini. Ed è stato solo con la presa del potere da parte dei talebani che quella palandrana è diventata il giogo delle donne. 
Oggi ad opprimere le afghane non c’è solo l’estremismo religioso. Pure la globalizzazione ci ha messo lo zampino. «Negli ultimi cinque anni il mercato afghano è stato invaso dai burqa cinesi», spiega Fareed Nabizada, commerciante di Kabul mentre accarezza una pila di pashmine morbidissime. E che si tratti di Kabul o Kandahar ormai non c’è partita, vince il chadri low cost. L’unico punto di forza del burqa made in China – inutile dirlo – sono gli 11-18 dollari massimo al pezzo, contro i 36 dell’originale. «Ma le mie clienti non sono per niente felici e si lamentano», continua Nabizada. Dunque, nonostante sia ormai l’abito delle donne pashtun più povere, il chadri originale è diventato un bene di lusso da regalare per il matrimonio e per i corredi. E quelli che un tempo erano abiti in seta finissima, lavorati e ricamati a mano, ora sono stracci in poliestere, tinti con sostanze chimiche, ancora più caldi di quelli tradizionali. 
Un incubo per le donne, già notevolmente limitate nei movimenti. E un incubo per la fragile economia afghana che ha visto spostarsi in Iran la lavorazione della seta e centinaia di donne perdere il lavoro.
Ma non sono solo i burqa a soffrire l’assalto dei prodotti stranieri. In Afghanistan l’80 per cento delle materie prime e dei prodotti arriva dall’estero. Così nello stesso Paese che per secoli è stato crocevia della Via della Seta basta aprire qualunque dispensa per trovare prodotti «made in Pakistan only for Afghanistan», mentre la colonnina dei bilanci commerciali sale a 7 miliardi all’anno di import. 
E il coro a Chicken Street, a Kabul, è sempre lo stesso: «Oramai l’unica merce originale afghana è l’ oppio».