Il Messaggero, 26 maggio 2018
Intervista a Dylan Minnette, l’uomo di Tredici
Ventidue anni, e già i conservatori americani lo vorrebbero fuori dai giochi. Perché se c’è qualcosa che sa far bene Dylan Minnette, attore e musicista entrato nei cuori dei teenager come protagonista in Tredici, è cacciarsi nei guai. Niente a che vedere con brutte storie di eccessi, droghe e rock’n roll: il suo gruppo, Wallows, suona da sempre un rock alternativo dalla faccia pulita, per adolescenti che si struggono al primo amore. Il problema di Minnette è un altro, e ha a che fare con la sua carriera parallela d’attore (per i fan delle serie tv: era il figlio del dottor Jack Shephard in Lost).
Dopo essere finito nel mezzo delle polemiche per la prima stagione di Tredici, serie celebre per un finale estremo – il suicidio della protagonista – che l’anno scorso fece trasecolare praticamente ogni associazione di genitori in America, Minnette è ancora nella bufera. In streaming su Netflix da una settimana, la seconda stagione di Tredici riprende dal punto in cui era finita, con il processo a carico dei responsabili del suicidio della protagonista. Ma nel farlo ecco che gli sceneggiatori infilano nel soggetto altre scene di stupro, il consumo di droghe pesanti, una tentata strage a scuola e una scena crudissima di sodomia, nell’episodio finale, che il Parents Television Council americano ha definito in questi giorni «una bomba a orologeria che Netflix ha la responsabilità di disinnescare».
Minnette, la prima stagione di Tredici non è passata inosservata. Se lo aspettava?
«Sapevamo tutti che le polemiche sarebbero arrivate. Ma la reazione del pubblico non mi ha spaventato. Sono contento che quel finale abbia provocato reazioni differenti. Mi sembra persino sano. E poi diciamolo, fare casino per sollevare il dibattito era esattamente quel che volevamo».
La seconda stagione fa altrettanto?
«La seconda serie racconta cosa succede dopo la tragedia. Il processo di cura, la guarigione dei personaggi, la difficoltà nel superare un’esperienza come lo stupro. E certo, la serie è piena di passaggi molto forti, forse ancora più pesanti che nella prima stagione. La depressione, il suicidio, la violenza sono temi che ricorrono. Ma rispondo come ho sempre fatto: non raccontiamo cose che non esistono».
Tra Tredici 1 e 2 ha girato un horror, Open House. Altre polemiche: troppo violento.
«In effetti ultimamente mi capitano solo progetti controversi. Di certo non mi vedrete mai col costumino da supereroe o come principe azzurro. Adesso vorrei fare qualcosa di piccolo, mi piacerebbe un dramma indipendente».
Pensa che il #metoo avrebbe salvato la protagonista di Tredici?
«Se avesse avuto il supporto di quel movimento, sì, forse non si sarebbe suicidata. Riguardo al caso delle molestie nel cinema, io che nell’industria cinematografica ci sono cresciuto – anche se protetto dai miei genitori – avevo capito presto che le cose non andavano per il verso giusto. Oggi ho perso la pazienza nei confronti dei prepotenti: secondo me dovrebbero essere puniti in maniera esemplare».
Il successo l’ha cambiata? Quando era a Roma, ad aprile, le ragazzine l’aspettavano fuori dall’hotel.
«Nonostante il successo di Tredici la mia vita non è cambiata. Vivo ancora a Los Angeles, frequento gli stessi negozi e le stesse persone. Sì, le ragazze mi aspettano fuori dagli hotel e, questo, non mi era mai capitato. Ma lo fanno anche perché vogliono parlarmi, raccontarmi quanto Tredici sia stata importante per le loro vite».
Nel suo futuro si vede attore o cantante?
«Non so quanto Tredici possa durare, non ho la sicurezza di una terza stagione. A questo punto della vita posso dire di aver recitato più di quanto abbia suonato. Ma so procastinare: sono ancora troppo giovane, spero, per decidere definitivamente della mia carriera».