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 2018  maggio 26 Sabato calendario

Russi e arabi buttano giù il prezzo del petrolio

La Russia ha deciso di scuotere l’accordo sul petrolio con l’Opec che in un anno e mezzo aveva riportato il Wti americano sopra i 72 dollari al barile e il Brent europeo sopra gli 80: ieri le voci, confermate dallo stesso presidente Putin, sulla volontà di aumentare la produzione di greggio, rinunciando a una parte dei tagli concordati nel 2016, hanno fatto crollare il Wti a 67,82 dollari. Putin ha detto (addirittura) che «la Russia è perfettamente soddisfatta di un barile a 60 dollari. La collaborazione con l’Opec continuerà, ma non tutti i suoi aspetti saranno confermati». A questo punto i mercati si aspettano un ulteriore calo del prezzo in vista dell’incontro fra produttori fissato al 22 giugno; nuovi milioni di barili verranno messi in vendita.
Del resto non è solo la Russia il «deus ex machina» di questa operazione: già prima che parlasse Putin, si era espresso il ministro del Petrolio saudita, Khaled al-Faleh, affermando che «un graduale incremento della produzione potrebbe materializzarsi nella seconda metà del 2018».
Questo dovrebbe avere, nei prossimi giorni, un impatto sul prezzo dei carburanti in Italia; ma ieri è stata un’altra giornata di rincari, e potrebbe esserlo anche oggi, perché le compagnie petrolifere sono lente a far seguire a benzina e gasolio i ribassi del petrolio: ogni volta che tali ribassi arrivano, i petrolieri dicono di dover smaltire le scorte acquistate a prezzo più alto, e si prendono il loro tempo. Vedremo.
Quel che è certo è che ieri la Staffetta Quotidiana segnalava altri aumenti dei carburanti, e l’Osservatorio del ministero dello Sviluppo diceva che la benzina «self service» costa in media in Italia 1,640 euro al litro e il gasolio 1,514.
Resta da capire come mai i produttori Opec e non-Opec, che hanno molto guadagnato dall’accordo sui tagli alla produzione del 2016, adesso abbiano deciso di cambiare politica; una mossa autolesionistica non è verosimile, quindi è necessario scoprire le loro vere motivazioni. Cominciamo a esaminare le spiegazioni pubbliche dell’imminente aumento di produzione date dai sauditi e dai russi, e osserviamo che tali spiegazioni sono fra loro compatibili ma differenti. I sauditi sottolineano che sul mercato è sparito il surplus produttivo che aveva fatto crollare i prezzi nel 2014; la domanda mondiale continua a crescere; il petrolio da scisto (shale oil) americano non tiene più dietro alla richiesta; e l’Iran e il Venezuela stanno gradualmente sparendo dal mercato per ragioni politiche. Quindi il mondo può assorbire un aumento delle quote produttive. Invece Putin, pur citando alcuni di questi fattori, ha soprattutto sottolineato che il petrolio a 70 o 80 dollari beneficia tutti i produttori, mentre a poter sopportare un prezzo di 60 (per ragioni di costo di estrazione) sono solo i russi, i sauditi e alcuni altri arabi, e gli altri non avrebbero margine per stare sul mercato. State attenti perciò, brutti discoli. Tirando le somme, la Russia e l’Arabia potrebbero aver deciso di aumentare l’estrazione non come scelta strategica a lungo termine, ma per spaventare gli altri produttori e imporre loro una maggior disciplina in vista della riunione del 22. Come dire: non provate a fare i furbi e a sforare le quote, perché in quel caso cavalchiamo la tigre noi e vi mandiamo fuori mercato. Se invece ci lasciate fare e ubbidite al cartello, garantiremo un aumento graduale del prezzo del petrolio per tutti i produttori nel lungo termine, e il calo di questi giorni sarà solo un espediente tattico.