la Repubblica, 26 maggio 2018
Recarsi
R E C A R S I F renando il triciclo mi chiede il tricheco: / “Sai dirmi, da amico, dov’è che mi reco?”». L’ultima parola di questo distico dell’inconfondibile Toti Scialoja è una scelta lessicale fortemente sconsigliata dai manuali di eleganza espressiva contemporanea. «Recarsi» sarebbe infatti un esempio di quella che Italo Calvino chiamava «antilingua» e, ancora prima, Alberto Savinio chiamava «aeouismo»: stile caratterizzato da frequenti parole ridicolmente preziose o astratte. Se parli a un amico dici: «vado a casa», se parli a un magistrato dici: «mi reco alla mia abitazione». Correggeremo dunque Scialoja? «Frenando il triciclo mi chiede Fernando: / “Sai dirmi, da amico, dov’è che sto andando?”». Se volete, emendatelo voi: sarà che amo parecchio Toti Scialoja e non amo per nulla i manuali di eleganza espressiva contemporanea. È innegabile che «recarsi» è una forma un po’ così e a usarla si fa una figura un po’ così: la stessa della domestica di Alberto Savinio, che quando parlava al telefono non diceva più «aspettare» ma «attendere». Significa che esistono forme che richiedono una certa sapienza e allora è meglio che i parlanti comuni si astengano dal pronunciarle? Un professore infatti sa quando dire «recarsi» e «attendere» senza apparire come la domestica di casa Savinio, che lo stesso Savinio descriveva come «formosa». Oggi non lo farebbe più: erano, infatti, altri tempi. Ma forse stanno tornando, se ai parlanti si insinua che loro certe parole non se le possono «permettere», così come certi abiti alle signore, giustappunto, «formose». Forse è meglio, allora, seguire l’indicazione di Gianni Rodari: «Tutti gli usi della parola a tutti. Non perché ognuno sia poeta, ma perché nessuno sia schiavo». Né, aggiungerei, ritenuto in errore a causa delle sue proprie forme.