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 2018  maggio 26 Sabato calendario

Intervista a Nick Cave

NEW YORK Mettete via quei telefoni: non devo per forza finire su YouTube stasera». Voce dolente, sorriso furbo in faccia. Nick Cave sta per salire sul palco a New York. «Non fraintendetemi, ho un buon rapporto con la tecnologia» ci aveva detto prima che le luci del teatro si abbassassero. «Gli smartphone sono il nuovo rock’n’roll. È una battaglia che io e la mia band abbiamo provato a combattere ma ci ha seppelliti da un pezzo», anche se Cave preferisce ancora «un modo più grunge di scattare foto, quello stretto sul volto di un artista, non ritoccato, analogico». Di recente, «a Milano, rientravo in albergo e ho trovato una folla di ragazzi sui gradini» prosegue il musicista australiano, alla guida dei suoi Bad Seeds. «Sembravano felici di vedermi e insoddisfatti al tempo stesso. Perché non posavo, non mi atteggiavo a divo. Per accontentarli ho fatto uno sforzo, spalancato braccia e gambe e alzato il collo. Mi sono sentito una vera stella». Giù i cellulari, su i ricordi. Una carriera “sempre in gioco”, Nick Cave negli anni ha anche corteggiato il cinema: «Ho chiuso con Hollywood. Scrivere sceneggiature è un lavoro da cani». E ha conosciuto bene Johnny Cash: «Registrare con lui I’m so lonesome I could cry mi ha segnato. L’ho incontrato in pieno diabete, faticava a scendere le scale, era cieco. “Sei lì Nick?” domandava. “Diavolo, come faremo a lavorare” ho pensato. June Carter lo mise a sedere, gli passò la chitarra e Cash tornò in vita per miracolo». Nello spazio intimo del Peter Jay Sharp Theatre lo aspettano i tasti di un grande pianoforte, 15 canzoni e con loro i fantasmi di una vita intera: «Ho scoperto che un modo per fare i conti con se stessi, se si è artisti, è incontrare il pubblico e non isolarsi. È importante sapere cosa accade nel resto del mondo, ascoltare chi ti segue dagli anni Settanta, da quando cioè facevo cover proto-punk di Lou Reed e David Bowie» sorride, infilandosi una giacca nera. Con noi sceglie di parlare di tutto, «perché non guardare il mostro in faccia è un gioco a risultato zero». Il riferimento è alla morte del figlio, Arthur, caduto nell’estate 2015 da una scogliera a Brighton, sotto l’effetto di Lsd. «Quando Arthur è morto ho pensato: mia moglie ed io non sopravviveremo» racconta. «Il documentario che abbiamo girato ( One more time with feeling, ndr) ha portato invece un vento di empatia straordinario, sono entrato in contatto con persone comuni che vivevano quello che vivevo io. Mi sono reso conto che c’è così tanta afflizione attorno a noi... Siamo uniti dalla sofferenza». Non ci sono solo morte e violenza nei testi delle sue canzoni, mette in chiaro: «Quando ero in tour con i Bad Seeds, negli anni Ottanta, ci prendevamo in giro. Il senso dell’umorismo non è mai mancato a me, Mick Harvey e al chitarrista Blixa Bargeld. Ora siamo tutti più grandi. Il mondo è cambiato e ci costringe a essere seri. Io ho sessant’anni, sedici dischi insieme alle spalle, e con le mie disintossicazioni da alcol e sostanze stupefacenti potrei stilare la Guida Michelin del rehab». Non è più il punk di una volta: «Alla vita spericolata e ai titoli dei giornali che davano la mia prima band, Birthday Party, tra le più violente al mondo, chiamandomi Principe delle Tenebre, ho sostituito un soggiorno, una finestra, una libreria e dei taccuini per la scrittura. Mi è stato detto che il motore del mio successo non ha tanto a che vedere con me, con la mia immagine pubblica, quanto a un’idea di benevolenza che trasmetto. Gentilezza reciproca. Perché è così che la vita va vissuta: aiutandosi l’uno con l’altro. Mi piace l’idea di creare una piccola comunità grazie alla musica». Teme, però, di non aver fatto abbastanza per le donne che ama e ha amato: da Anita Lane (con cui ha cantato brani di Bob Dylan e Serge Gainsbourg) alla modella inglese Susie Bick, ex leggendaria It-girl londinese. «È così bello vedere la mia musa, mia moglie Susie, diventare Dio». A proposito di muse, nel ’96 Cave ha inviato una lettera storica a Mtv, chiedendo di ritirare il suo video dalle candidature come miglior artista: «La mia musa non è un cavallo, e io non sono a una corsa di cavalli» ha scritto in difesa della connazionale Kylie Minogue che duettò con Cave in Where the wild roses grow. «Era fragile, volevo portarla via da una competizione del genere». E aggiunge: «Di Kylie ricordo soprattutto l’abitudine di mandarmi messaggini al telefono. Non avete idea della quantità di punti esclamativi che usa! È incredibile. Riesce a infilarli tra una parola e l’altra. Ogni sms somiglia a una roba euforica, sovraeccitata». Il cantautore torna poi sul caso Israele: «La scelta di andare lì in tour è stata contestata da artisti come Brian Eno e Roger Waters, che chiedevano di porre fine all’occupazione dei territori palestinesi boicottando Israele. Io non userei mai la mia musica per punire i miei fan per il comportamento nefasto del loro governo. Ci sono musicisti là fuori che credono che la musica serva a castigare le persone. Preoccupante». Cave sarà in Italia per una sola data, il 17 luglio al Lucca Summer Festival. È già al lavoro su un nuovo album: «Prima del disco però ci sarà l’opera. È bella, parla di guerra. Si intitola Shell Shock, andrà in scena di nuovo a Parigi e spero che i potenti della Terra verranno a vederla». Questi tempi di caos impauriscono il Principe delle Tenebre? «Non è il caos a farmi paura. È il senso di divisione e tribalismo che si respira nel mondo a doverci preoccupare. Tutti quanti».