Varie, 24 maggio 2018
In morte di Philip Roth
Il nichilista che svelò l’America
Alessandro Piperno per ill Corriere della Sera
Philip Roth — insieme a un paio di scrittori morti secoli fa — è l’individuo che non conosco con cui ho passato più tempo in tutta la mia vita. Lo frequento da quando arrampicandomi sulla libreria dei miei genitori in salotto, su su fino all’ultimo scaffale zeppo di romanzi proibiti, misi le mani sul Lamento di Portnoy . Allora scoprii che tre anni prima della mia nascita qualcuno aveva saputo parlare del cuore nero dell’adolescenza in un modo che nessuno (neanche il compagno di classe più intraprendente e sboccato) avrebbe potuto eguagliare.Da allora ho recuperato dapprima i romanzi dei tardi anni Settanta e dei primi anni Ottanta mal editati (almeno in Italia) e così sfortunati, per poi lasciarmi andare sempre più sbigottito alla gigantesca, stupefacente resurrezione che, per dirla con Coetzee, ha sfiorato «vette shakespeariane» tra il ’95 e il ’97, quando Roth diede alle stampe Il teatro di Sabbath e Pastorale americana, ovvero quanto di più toccante e ambizioso uno scrittore abbia prodotto nell’ultimo mezzo secolo.
Ieri mattina mentre si diffondeva la notizia della sua morte — preso dal sentimentalismo corrivo e melenso che ogni tanto ci illanguidisce i cuori e di cui subito ci vergogniamo — ho mandato un messaggio a un amico con cui da lustri condivido l’idolatria rothiana: «Gli avevo a stento perdonato la decisione di non scrivere più, ma questo?». La risposta, non meno retorica in fondo, mi è sembrata un magnifico epitaffio: «Si finisce per scambiare l’immortalità della carta con l’immortalità della carne».
La beffa è che se c’è un romanziere che non ha scommesso sull’eternità, quello è Philip Roth. Anzi, prevedeva che nel corso di un quarto di secolo i lettori di narrativa si sarebbero assottigliati al punto da ridursi al novero di cultori della poesia latina. Mi auguro che avesse torto — se non altro per la salute del mio conto in banca — ma riconosco in tale affermazione tutto il realismo rothiano, inteso come buon senso della realtà.
Roth appartiene ai rari giganti della letteratura — da Montaigne a Joyce — che non se la sono mai raccontata. Che non hanno mai scambiato la propria dedizione all’arte per una cosa seria e indispensabile per il resto dell’umanità. Che hanno lavorato indefessamente, senza mai illudersi che ciò avrebbe potuto cambiare qualcosa. E lo hanno fatto perché non poteva essere altrimenti. «Lavoro tutto il giorno, mattina e pomeriggio, sette giorni su sette. Se mi ci metto per due o tre anni, alla fine ho un libro». Semplice, no? Sì, se hai la carica sexy di Philip Roth, il suo carisma morale, la sua sfrontatezza artistica. Del resto, è difficile spiegare a chi non lo capisce quanto persuasivi, vitali, euforizzanti siano gli inconfondibili giri di frase rothiani, l’eloquenza, la sintassi teatrale, gli avverbi ossessivi e tonitruanti. E i punti interrogativi? Chi altro ha saputo dare un simile lustro alle forme interlocutorie?
Il fatto è che Roth è attratto dalle contraddizioni, e da tutto ciò che è storto e non funziona, è animato dal sospetto che nella vita i conti tornino raramente. In tal senso è un autentico moralista. In uno dei passi più celebri di Pastorale americana scrive: «Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi; sbagliando».
Era dai tempi di Port Royal che uno scrittore non parlava in modo tanto franco e ossessivo dell’ineluttabilità della morte e della caducità della vita umana. E ciononostante la narrativa di Roth, con tutte le sue divagazioni cimiteriali, i suoi affreschi plumbei, le patologie invalidanti, è gioiosa, come sanno essere gioiose solo le cose belle e le cose vere. Lo so, forse, date le circostanze, sarebbe più saggio e didascalico soffermarsi sull’America, sul sesso, sulla misoginia (che d’altronde io non ho mai riscontrato), sull’onanismo, sull’assimilazione ebraica, sui conflitti etnici, sull’epica e sull’ambizione, insomma sui temi à la page che impreziosiscono la narrativa rothiana; ma si dà il caso che, almeno per me, il cuore dell’opera di Roth sia racchiuso nel titolo di uno dei suoi libri meno belli: My Life as a Man, la mia vita di uomo. E Dio ha voluto che la sua vita combaciasse con la letteratura, in un matrimonio talmente difficile che a un certo punto Roth ha chiesto il divorzio, appendendo la penna al chiodo. «Anche l’arte è vita» si accalorava con un’intervistatrice di un noto settimanale francese. «Capisce? Isolamento è vita, meditazione è vita, fingere è vita, fare congetture è vita, contemplare è vita, la lingua è vita».
Ciò che molti detrattori hanno confuso per egotismo altro non è che la constatazione che la sola maniera per scrivere qualcosa di decente è partire da sé, tornare ossessivamente a se stessi, a costo di essere equivocati o vilipesi. Gli alter ego rothiani — Alex Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Philip Roth stesso con tanto di sosia annessi — non svolgono la stessa funzione degli pseudonimi in Stendhal o degli eteronimi di Pessoa. Roth non li inventa per nascondersi o per reinventarsi. Lo fa per essere ancora più schietto e spietato. Nell’intervista alla «Paris Review» del 1984 Hermione Lee gli chiede: «Quando scrive in testa ha un lettore in particolare?». La risposta è tanto spiritosa quanto emblematica: «No. A volte mi capita di avere in testa un lettore anti-Roth. E penso, come odierà questa cosa. Il che può rivelarsi proprio la spinta di cui ho bisogno». Non è facile resistere alla tentazione di compiacere il lettore, ma provocarlo deliberatamente è un esercizio ancor più complicato. E tuttavia riuscire a metterlo con le spalle al muro, alle corde, di fronte al suo perbenismo e al suo puritanesimo, può dare gioie impagabili. Ecco un’altra lezione da tenersi stretti.
C’è una cosa piccola di Philip Roth che mi ha sempre sorpreso e intenerito. Se date un’occhiata ai suoi ultimi libri in hardcover — le edizioni americane naturalmente — troverete la sua biografia zeppa di onorificenze che neanche un ambasciatore o un generale pluridecorato. Premi su premi, e tra i più internazionalmente prestigiosi. Ripeto: la cosa mi ha sempre sorpreso e intenerito. Mi dicevo: che te ne fai di questa roba? Sei Philip Roth. Sei tu che dai lustro a quelle bigie istituzioni, non viceversa. Del resto, ho sentito dire che il Nobel mancato fosse un serio problema per lui. Anche questo mi sembra incredibile. Il Nobel? A che ti serve il Nobel? Non ti basta esserti inventato Mickey Sabbath, Drenka Balich e il loro funambolico amore adulterino?
Eppure, pensandoci bene, anche questo esprime al meglio la contraddittorietà di Philip Roth. Immagino che quei riconoscimenti avrebbero riempito di orgoglio i suoi genitori, soprattutto il padre per cui Philip aveva un’autentica venerazione. Roth passa per il grande distruttore delle famiglie, l’accusatore indefesso dell’istituzione patriarcale. È lui ad aver detto: «Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita». È così che stanno davvero le cose? C’è uno scrittore che, nel suo sostanziale ateismo, materialismo, nichilismo, abbia coltivato un culto per gli avi, per i penati, in poche parole per la genealogia familiare più di Philip Roth? A me pare proprio di no.
A un tratto, ne La controvita, durante un litigio tra i fratelli Zuckerman, Henry chiede con sarcasmo a Nathan: «Dimmi una cosa, è mai possibile, almeno fuori dai tuoi libri, che tu abbia un quadro di riferimento un po’ più vasto del tavolo della nostra cucina di Newark?»; Nathan gli risponde: «Il caso vuole che il tavolo di quella cucina di Newark sia la fonte di tutti i miei ricordi ebraici».
Ora che la sua vita è finita, che la sua opera è chiusa per sempre, è facile notare come Roth abbia impiegato metà dei suoi libri a fuggire da quella cucina, e l’altra metà provando a rientrarci. È così che funziona, no? Da ragazzo non pensi che a scappare di casa, da adulto metti in atto i propositi libertari, da vecchio faresti di tutto per tornare all’ovile. Troppo tardi: ogni cosa che ti faceva palpitare e infuriare è venuta meno e ciò che resta parla una lingua aliena.
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Lo scrittore esce di scena
Nicola Lagioia per la Repubblica
È morto a 85 anni il profeta del grande romanzo americano Autore di oltre trenta opere, da sempre candidato al Nobel, abbandonò la scrittura sei anni fa. Aveva lasciato detto: “Distruggete i miei archivi”. Rimane il fatto che capire la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando». È a questo punto diPastorale americana, uno dei migliori romanzi del secondo Novecento, che Philip Roth, se non il più grande in assoluto (come lui nati nei Trenta: Thomas Pynchon, Toni Morrison, Cormac McCarthy) probabilmente il più robusto, il più tenace, il più influente, il più completo scrittore americano della sua generazione e di quelle a seguire, portava il suo alter ego Nathan Zuckerman a nutrire i primi dubbi sulla propria ricerca e noi lettori a morire di piacere tra le pieghe di una storia in cui nulla è come sembra. Oggetto dell’indagine: Seymour Levov, lo “Svedese”, ex atleta modello, simbolo di una presunta innocenza americana e vecchia conoscenza dell’io narrante.Addentrarsi nella vita di Levov ormai anziano – scoprire, dietro la rispettabilità borghese, una tragedia privata resa più insopportabile dal sale della commedia – porterà Zuckerman a smantellare uno dopo l’altro (la famiglia, il matrimonio, il patriottismo, il diritto alla felicità) tutti i pilastri su cui gli Stati Uniti avevano creduto di reggersi.Adesso che Philip Roth è morto e Donald Trump non smette di twittare, guardiamo ammirati quel formidabile libro come un’oasi di intelligenza in un deserto di qualunquismo, un inno alla complessità scagliato contro un tempo che punta tutto sulla semplificazione. Ma gli esseri umani non sono semplici per niente, e su questo Roth ci ha impartito per mezzo secolo una lezione magistrale. E modesta. Il suo addio alla scrittura annunciato nel 2012 si accompgna alle sue ultime volontà: distruggere gli archivi affinché nulla resti che non sia perfetto come ciò che ha pubblicato in vita.Pastorale americana è del 1997. Il romanzo lascia tutti di stucco.Massimo della complessità nel massimo della leggibilità. La cosa più stupefacente è la serie di capolavori che Roth in quel periodo riesce a licenziare uno dietro l’altro senza fermarsi un attimo. Operazione Shylockè del 1993, Il teatro di Sabbath del 1995, Ho sposato un comunista del 1998, La macchia umana del 2000,L’animale morente dell’anno successivo. Quale altro scrittore americano – eccettuato forse Faulkner nel decennio 1929-39 – era riuscito a dare così tanto in così poco tempo? Aggiungete che lo scrittore sessantaquattrenne di Pastorale era anche quello che, quasi trent’anni prima, aveva provocato già un terremoto pubblicando Lamento di Portnoy, un magnifico gesto di indipendenza e insieme un atto d’amore verso le debolezze della natura umana (così ridicola, sconcia, imprevedibile) scambiato per oltraggio al pudore. Certo Roth ha eccelso in ogni disciplina a cui si è dedicato. È stato un ottimo autore di short stories(l’esordio di Addio Columbus), ha raccontato mirabilmente la follia del sesso (da Portnoy in poi), si è emancipato dalle proprie origini in modo pressoché istantaneo (indignò l’ala più ortodossa della comunità ebraica dai primi racconti pubblicati sul New Yorker) ma al tempo stesso ci ha regalato uno dei più alti esempi di amore filiale e autofiction ante litteram con Patrimonio, tutto incentrato sulla morte di suo padre. Ha inventato uno degli alter ego più riusciti di sempre (il ciclo di Zuckerman, ma non dimentichiamo David Kepesh), e ha reso omaggio ai suoi maestri senza lasciarsene schiacciare (Saul Bellow) o arrivando quasi a parodiarli (probabilmente c’è Bernard Malamud dietro Lo scrittore fantasma). Ha raccontato divertendosi gli Stati Uniti di Nixon ( Cosa Bianca Nostra) e in modo sublime l’America ai tempidell’affaire Lewinsky ( La macchia umana). Addirittura Roth si è cimentato in una distopia che rischia adesso di apparire una premonizione ( Il complotto contro l’America è tornato tra gli scaffali delle librerie americane dopo l’elezione di Trump).Roth il più grande naturalista del secondo Novecento? Nasciamo senza averlo deciso, preghiamo un dio che non esiste, in una famiglia che amandoci rischia di distruggerci, siamo schiavi del sesso, lottiamo per ottenere un premio che non ci renderà felici, fraintendiamo ogni cosa quanto più ci sentiamo vicini alla soluzione di un problema, a un certo punto moriamo ed ecco tutto – sono questi pochi accordi che danno vita, prodigiosamente, all’infinità di combinazioni capaci di far risplendere da secoli l’arte di raccontare storie.Questo per Philip Roth è certamente vero, ma c’è altro. Se Pastorale americana e Lamento di Portnoy sono i suoi libri più famosi, il più estremo e forse il più bello è Il teatro di Sabbath. Qui il comico acquista una profondità ulteriore, il sesso rima perfettamente con la morte, e attraverso l’unico dei suoi campioni non borghesi, il burattinaio dissoluto Mickey Sabbath, così vitale, disperato, violento, Roth riesce a ingaggiare a un certo punto un dialogo con Shakespeare: il cimitero dove Sabbath si masturba sulla tomba dell’ex amante Drenka è lo stesso in cui Amleto vede il teschio di Yorick, un cimitero, un castello, la stanza di un hotel, la dimensione altra in cui l’arte, mostrando le colonne d’Ercole dell’uomo, lo scopre sotto una luce che in natura non esiste.
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Il sesso, la vanità i legami sociali La sua ironia nulla risparmiò
Elena Mortare per La Stampa
Era una giornata di cielo terso e sole splendente. Accanto alle finestre aperte sulla vista di Manhattan, abbiamo trascorso quasi tre ore in conversazione intensissima, costellata di ricordi e talvolta di grandi risate. Avviandoci verso la porta di casa, mi aveva indicato i disegni satirici appesi alle pareti accanto all’ingresso, ispirati al suo romanzo Il seno: versione rothiana, grottescamente autoironica, del racconto di Kafka La metamorfosi, ove si racconta del prof. David Kepesh che, ossessionato dal sesso, si trova trasformato in una gigantesca mammella. Con il tono tra il serio e lo scherzoso, aveva osservato, un po’ rivendicativo: «Con questo romanzo, io ho anticipato la cultura transgender!». Sapeva di essere stato un rivoluzionario e di non essere stato sempre capito.
In questo momento di grande dolore per la perdita di Philip Roth, la perdita dello scrittore, la perdita dell’uomo, se ne ricerca la voce nei suoi libri, che rimarranno monumentali a raccontare l’America, a partire dalla condizione di quella enclave ebraica a lui familiare che stava entrando nel mainstream americano negli anni del suo esordio, a raccontare la condizione umana in tutta la sua imperfezione e i suoi conflitti. Ma per chi lo ha conosciuto, è un dovere condividere anche, per quanto possibile, il ricordo della sua voce di uomo.
Racconterò un momento molto particolare del nostro incontro. Stavamo parlando del primo testo ripubblicato nella nuova splendida raccolta di saggi uscita in America nel 2017, Why Write?, che si apre con un suo saggio-racconto del 1973 dedicato a Kafka: un testo di natura ibrida, che inizia in forma saggistica per poi diventare racconto di invenzione, in cui lo scrittore immagina che Kafka, sopravvissuto e arrivato in America da profugo, fosse diventato il suo insegnante alla Hebrew School, il doposcuola ebraico che Roth aveva frequentato da ragazzo nel suo amato quartiere di Newark.
Ricordo che in quel saggio-racconto,Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, a un certo punto lei parla di una associazione di famiglia di oltre duecento persone. Questo è qualcosa che viene dalla realtà, dalla sua esperienza reale?
«Ora le mostro una foto. Vede qui? (si alza, invitandomi a seguirlo, e mostra una grande fotografia appesa alla parete, in cui compaiono circa 150 persone elegantemente sedute a tavola lungo le pareti di un salone) Oh, qui c’è mia mamma! E dov’è mio padre? Eccolo! Sono tutte persone della mia famiglia, dalla parte della mia nonna paterna».
È meraviglioso, è incredibile!
«Sì, questo era molto comune in America negli Anni 20 del Novecento. Le famiglie ebraiche ebbero il diritto di andarsene dall’Europa orientale tra il 1880 e il 1900. E la prima generazione lottò, ma i loro figli, che erano saliti un poco sulla scala sociale, erano più borghesi, formavano queste associazioni familiari, che erano molto comuni tra gli ebrei. Erano una sorta di società assistenziali, prestavano denaro per le sepolture o se qualcuno era malato, avevano un fondo di borse di studio per i ragazzi che andavano al college, per quelli che si trovavano a non aver soldi. E poi c’era un grande sentimento familiare tra loro. Da piccolo, adoravo andarci. Penso che quando è stata scattata questa foto ero ormai troppo sofisticato... Questa è stata scattata nel 1949. Avevo sedici anni. Ero troppo vecchio!»
Era l’inizio dell’età della ribellione... Ma dunque, queste persone erano tutte imparentate?
«Erano tutti imparentate dalla parte di mia nonna paterna. In effetti, è la famiglia della madre di mia nonna: un matriarcato. Questa è la mamma di mio padre, e noi solevamo andare a trovarli ogni domenica mattina a Newark, in una sezione povera della città, dove lei viveva e dove è cresciuto mio padre. Con le nonne ho avuto un legame molto forte. Sì, le ho amate entrambe, sì».
Per andare a casa delle sue nonne si doveva attraversare un cimitero. Questo può aver avuto qualche influenza sulle molte scene di cimitero nella sua narrativa?
«Odiavo passare per quel cimitero, mi spaventava. E durante la guerra, quando la benzina era razionata, per cui avevamo soltanto quel tanto di benzina per l’auto alla settimana, e mio padre aveva bisogno della macchina per il lavoro, così la domenica eravamo soliti andare a piedi. Perciò passavamo a piedi oltre il cimitero».
E dunque chissà se questa esperienza ha lasciato un segno, quando più tardi il tema dei cimiteri è ritornato a galla nella sua mente?
«No, non è così. Penso che sia successo quando ho iniziato ad andare così spesso ai funerali, quando ho superato i 65 anni. I miei amici che avevano quindici o venti anni più di me hanno cominciato a morire, ed io ho iniziato ad andare così spesso ai funerali…».
Ci siamo salutati con un abbraccio, sull’uscio del suo appartamento nell’Upper West Side di New York. Nel salutarlo, lui ancora alto e diritto, affettuoso, credevo fosse un arrivederci, e invece era un addio.
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Sferzò il sogno americano. Il Nobel non se ne accorse
Paolo Bertinetti per La Stampa
A Philip Roth, morto ieri all’età di 85 anni, il Premio Nobel avrebbero dovuto darlo almeno venti anni fa, dopo l’assegnazione dal Premio Pulitzer per Pastorale americana: un capolavoro assoluto, un romanzo che offre un ritratto acutissimo e amaro della società americana, dagli anni del dopoguerra fino a quelli del Vietnam, dalle illusioni e dalle follie della giovane generazione anti-sistema alle illusioni e alle sconfitte di quella uscita dalla guerra. Una generazione che spronata dal clima di esaltazione collettiva che si affermò dopo la fine del conflitto (e dei sacrifici) si lanciò con convinzione ed entusiasmo nella costruzione di un’America più ricca e più grande che mai; e che dopo, come nel caso del suo protagonista, si ritrovò a dover nascondere i fallimenti dietro la facciata del benessere. È in questo romanzo che Roth ha raggiunto il vertice della sua produzione letteraria.
Roth era nato a Newark nel 1933. Suo padre, Herman Roth, figlio di ebrei emigrati negli Stati Uniti dalla Galizia, era un esponente di spicco della comunità ebraica che popolava il quartiere di Newark chiamato Weequahic. Il quartiere e la scuola stessa di Weequahic dove si era diplomato nel 1950 sono stati lo sfondo di molti dei suoi romanzi. Più che lo sfondo: sono stati il terreno fecondo su cui ha fatto crescere la sua invenzione romanzesca, trasformando nei personaggi della finzione, nelle loro vicende, nei loro dilemmi quanto aveva osservato nei suoi anni di formazione.
Questo avvenne tuttavia in un secondo tempo, anche se l’identità ebraica è centrale già nei suoi primi lavori. Ma come oggetto di satira, tant’è vero che il lavoro d’esordio, Goodbye Columbus, gli valse l’etichetta di «ebreo che odiava se stesso per il fatto di essere ebreo». L’accusa, accompagnata dallo scandalo, fu ampiamente rinnovata in occasione della pubblicazione nel 1969 del Lamento di Portnoy, uno dei libri più osceni, scrisse il New Yorker, «che mai siano stati pubblicati». Ma quello che Roth voleva rappresentare era la rivolta della sua generazione contro il perbenismo repressivo dell’ambiente familiare. Alexander Portnoy, un nevrotico giovanotto di Weequahic, ricorre alle cure di uno psicanalista. Il romanzo è il suo monologo sul lettino del terapeuta: una scelta formale brillante, che consente a Roth di sbizzarrirsi in un parlato di irresistibile vivacità - e comicità.
Portnoy non parlava solo della giovane generazione ebraica; ma di tutta quella generazione, e non solo quella americana. Anche per questo fu un successo strepitoso, tanto in Europa quanto in America. Ma fu anche motivo di attacchi durissimi contro Roth, che decise di defilarsi. Nel 1972 si recò a Praga per «rendere omaggio» a Kafka; e al suo ritorno a New York si dedicò allo studio del ceco e alla frequentazione della comunità ceca, prendendo le distanze dall’ambiente letterario newyorchese.
In seguito si trasferì a Londra, insieme all’attrice Claire Bloom (che sposò più tardi), dove trascorse sei mesi all’anno fino al 1989, quando tornò in America per essere vicino al padre gravemente malato. I romanzi più notevoli degli anni londinesi sono quelli che hanno come protagonista lo scrittore Nathan Zuckerman, il suo alter ego: Lo scrittore fantasma, Zuckerman scatenato, La lezione di anatomia e il postmoderno La controvita. Il vertice della sua produzione romanzesca giunse però più tardi, con la trilogia in cui, a partire dalla rivisitazione della sua città natale, delle sue strutture sociali e dei suoi rapporti famigliari al loro interno, seppe offrire una riflessione sull’America del dopoguerra (e sulla sua Storia) che parla non solo agli americani, ma anche a tutti noi.
Pastorale americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana compongono una trilogia che affronta temi centrali della realtà americana, la guerra in Vietnam, il maccartismo, la discriminazione razziale, attraverso una scrittura diventata molto più asciutta di quella dei primi lavori ma capace di improvvise impennate liriche, molto «costruita» ma al tempo stesso piena delle cadenze dell’oralità. Anche in seguito, soprattutto in Indignazione e in Il complotto contro l’America, che alcuni considerano un’anticipazione dell’era Trump, Roth seppe riproporci i nodi della Storia attraverso le sue storie, da grande maestro di linguaggio e di invenzione romanzesca.
Il Nobel non glielo hanno dato. Peggio per il Nobel.
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Tra sarcasmi e manie rappresentò l’identità ebraica di oggi
Elena Loewenthal per La Stampa
«Scommetto che hai scritto tante di quelle metamorfosi di te stesso da non sapere più chi sei e chi sei stato» dice al suo creatore Nathan Zuckerman, il personaggio più famoso nonché ricorrente alter ego di Philip Roth. E prosegue, parlando da dentro quello che è, sempre secondo lui, il libro di Roth che ha per protagonista «il meno riuscito dei tuoi personaggi» (cioè l’autore in carne ed ossa). Si tratta de I fatti. Autobiografia di un romanziere, uscito nel 1988: l’unico libro in cui Roth parla esplicitamente in prima persona, ma lo fa subendo le angherie verbali del petulante e implacabile Nathan Zuckerman, presente qui come in tanti suoi romanzi.
Se infatti non c’è nessuno dei libri di Roth in cui l’autore non faccia capolino con le sue verità, le sue angosce e i suoi desideri più o meno inconsci, non è del tutto sbagliato ciò che Zuckerman gli rinfaccia in quelle pagine magnificamente avvitate su se stesse, in cui lo scrittore parla di sé in un continuo alterco con un suo personaggio, il quale a sua volta non gli perdona proprio nulla, a cominciare dal fatto di averlo creato. Proprio in questa autobiografia in cui i ruoli si invertono, Roth diventa il personaggio e Zuckerman una specie di demiurgo - «sei un testo ambulante», gli rinfaccia ancora - si scioglie quello che è il cuore della sua narrativa: l’ossessione ebraica. Roth non ci stava a farsi collocare dentro la «letteratura ebraica» - definizione piuttosto ambigua -, e tuttavia nessuno meglio di lui e dei suoi vari alter ego - a cominciare da Nathan Zuckerman - ha raccontato l’anima ebraica contemporanea, i confini di questa identità che sono per un verso nettissimi e per l’altro inafferrabili, pieni di cose che è quasi impossibile esprimere a meno di non mettere in conto dolore e rimpianti, troppa memoria, speranze sfumate ma anche un ottimismo latente che è fatto soprattutto di amore per la vita. «Non credo di essermi sentito fuori posto solo per il fatto di essere ebreo» racconta ancora Roth. Sta parlando degli anni dell’Università, nell’immediato dopoguerra. Poi nel 1959 pubblica sul New Yorker un racconto che desta il suo primo polverone ebraico: oggi lo si definirebbe poco politicamente corretto. Tre anni dopo, durante una tavola rotonda alla Yeshiva University di New York viene accusato di fomentare l’antisemitismo. «Non scriverò mai più sugli ebrei», racconta nella autobiografia, ma qualche riga dopo aggiunge: «quello fu il vero inizio della mia schiavitù... lo scontro alla Yeshiva, anziché indurmi a non trattare più temi ebraici in narrativa, dimostrava come non mai quanto fosse forte quella rabbia aggressiva che rendeva la questione dell’autodefinizione dell’ebreo e della fedeltà alla causa ebraica così incandescente» insomma, non poteva più fare a meno di scrivere di ebrei.
Ed è stato proprio così, da allora: raccontando se stesso attraverso i suoi romanzi, Roth ha saputo esprimere meglio di chiunque altro l’inestricabile matassa di fede e dubbi, sicurezza e fragilità, angosce e speranze che compone l’identità ebraica di oggi, e forse di sempre.
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Roth, patemi e passioni d’America
Luigi Sampietro per Il Sole 24 Ore
C’era un tempo, secoli fa, in cui la grande preoccupazione dell’umanità era la salvezza dell’anima. Forse perché ai mali fisici si sapeva che non poteva esserci molto rimedio. Oggi è il contrario. La cosa a cui si sta più attenti è la salute del corpo. Merito della scienza e conseguenza della generale convinzione della assurdità della morte. Il pensiero che tutto, ma proprio tutto, finisca.
Philip Roth, che non a caso era – è – uno scrittore alieno dal concepire una storia in forma di allegoria o di semplice metafora della vita, era – è – un artista che forse più di ogni altro nel nostro tempo ha esplorato la quotidianità degli individui. Anche le sue escursioni nel passato (Pastorale americana, Ho sposato un comunista, Il complotto contro l’America) sono entrate assai più spesso nel concreto delle emozioni di quanto non fossero fondate sulla discussione delle idee. In questo solido attaccamento all’osservazione della realtà, e una volta sottolineata la radicale differenza con il sincopato della prosa di Hemingway, bisogna dire che Roth ha, come lui, ottenuto risultati narrativi che lo candidano a essere tra i massimi scrittori del Novecento.
Affermò sempre di non essere portato per temi e argomenti di fantasia, e con questo intendeva anche, se non proprio la metafisica, ciò che non è tangibile. Il significato delle cose, oltre l’apparenza. I suoi romanzi escono raramente dall’America, e raggiungono la loro massima intensità drammatica quando si soffermano o ritornano, se non di fatto almeno implicitamente, nella strada di quartiere o nell’appartamento di una famiglia ebraica. Senza farne l’apologia e senza cedere al vittimismo.
Fossimo in un tribunale, diremmo che Roth è colui che ha raccolto le prove, ha steso un voluminoso referto di tutto quanto è accaduto a lui e attorno a lui e lo ha sottoposto allo scrutinio di milioni di lettori. Sapeva che perlopiù non si trattava di buone notizie, ed era consapevole che sarebbe stato preso per “un messagger che porta pena”.
Per questo motivo, prendeva spesso le distanze dai fatti che raccontava e da se stesso, e fingeva di essere un altro. Inventò un primo e poi un secondo alter ego, e li fece parlare in falsetto. Spesso con effetti comici. Ha scritto pagine memorabili, di una improntitudine e sincerità disarmanti sul matrimonio, il sesso (Il seno; L’animale morente), la convivenza, i pregiudizi della famiglia ebraica (Il lamento di Portnoy), i vaneggiamenti sulla razza (La macchia umana), la solitudine dello scrittore (Chiacchiere di bottega). Conquistò i lettori, soprattutto maschi, fin dagli inizi della carriera, e sicuramente un buon numero di donne, che poterono così entrare nella camerata dei loro fratelli e ascoltarne i discorsi.
Roth fece infuriare sistematicamente le femministe ma so per certo che affascinò sempre tutte quelle lettrici che erano più attente alla contagiosa verve del prestigiatore di storie che ai deliberati spropositi dei fantasmi che impugnavano la penna per lui. Nel corso della carriera è stato via via accusato di antisemitismo (oh, yes!), di antiamericanismo e non si è mai saputo di quale altra colpa – forse l’indecenza – dagli accademici del premio Nobel, i quali, comunque, al cospetto delle Muse, dovrebbero a loro volta rispondere di alcuni efferati delitti di lesa maestà.
Ma poiché a nessuno si può insegnare a ridere, approfittiamo di questa pur triste circostanza, per ricordare a loro e a noi stessi che Roth ci ha lasciato una antologia di lazzi, frizzi, scherzi e travestimenti che bastano per incoraggiarci a rileggere le sue opere con profitto. Un efficace luogo comune vuole che, dietro la maschera del clown che shakespearianamente dice la verità, ci siano le lacrime della tragedia. Roth non faceva eccezione. Ma c’era forse più rabbia e frustrazione che pathos nelle sue storie. E tuttavia, a dispetto delle apparenze, non era uno scrittore “anti”: la sua vena era genuinamente comica – portata al grottesco – ma non satirica. Non era uno scrittore “contro” per il semplice fatto che non era un moralista. Aveva un forte senso della dignità e della decenza, pubblica e privata, ma in fondo né lui né i suoi personaggi sapevano come il mondo avrebbe dovuto essere. Ed è stata, questa, la fortuna dei suoi lettori. Tra dilemmi, sensi di colpa mascherati, ossessioni insuperabili e ragionamenti che degenerano qualche volta in sproloqui, Roth pareva che parlasse sempre di sé, ma era tutto un trucco. Un’illusione.
Perché, se si può dare credito alle parole che mette in bocca a Nathan Zuckerman, suo narratore vicario in La controvita, quando afferma di essere una sorta di troupe di attori – «Sono un teatro e nient’altro che un teatro» – a cui si rivolge di volta in volta per far parlare le proprie voci di dentro, dobbiamo concludere che ancora una volta la verità non passa attraverso la confessione diretta.
Attraverso questo gioco di ombre e su questo palcoscenico in cui tutto è finzione, Roth ha lasciato, soprattutto negli anni dell’età avanzata, un regesto di sintomi e malattie, degenze e operazioni chirurgiche, che sono una testimonianza dei patemi e delle passioni del nostro tempo. E con Everyman e, soprattutto, Indignazione ha persino trovato il modo, servendosi dei personaggi, di fingersi morto e di parlare come se fosse nell’aldilà.
Roth è riuscito, e dall’America, il Paese dove la menzogna è considerata non solo una colpa ma un delitto, a trovare sempre il modo di dire la verità fingendo di mentire. Il successo dei suoi libri presso quel grande pubblico di lettori anonimi che sanno sempre scegliere chi si debba ascoltare ne è la prova.