Il Messaggero, 25 maggio 2018
C’è Pechino dietro il fallimento del vertice Trump-Kim
NEW YORK Niente Nobel per la pace per Trump e Kim, almeno per il momento. Si ricomincia invece a tremare per la minaccia di una guerra nucleare che entrambi i leader hanno paventato nei messaggi che hanno fatto precipitare le trattative in corso. È stato questo ultimo elemento: l’accenno alle armi nucleari, che ha fatto traboccare il vaso a Washington ieri mattina, dopo l’arrivo del messaggio aggressivo della vice ministro nord coreana Choe Son-hui che insultava il segretario di Stato Mike Pompeo, «marionetta politica» e che concludeva: «Dipende solo dall’atteggiamento degli Usa se ci incontreremo ad un tavolo di negoziato, o se arriveremo ad un confronto finale con le armi atomiche».
IL NEGOZIATOIl nucleare è certamente la questione centrale del fallimento, ma non per via delle minacce che sono volate attraverso il Pacifico. Il nocciolo è il contenuto che quel negoziato avrebbe dovuto avere, e che la fretta di conquistare titoli dei giornali, il luccichio del Nobel e la prospettiva di guadagnare consensi hanno probabilmente contribuito a far precipitare. Gli Stati Uniti avevano concluso dopo il primo giro di contatti con Pyongyang che la Corea del Nord era pronta a chiudere il programma nucleare con un taglio drastico, come si poteva leggere nel decalogo illustrato da Pompeo una settimana fa durante la visita alla sede del Dipartimento di Stato. Una resa senza condizioni sul fronte nucleare, in cambio di garanzie di incolumità per Kim Jong un e la sua famiglia, e di prosperità in arrivo sotto forma di investimenti internazionali. Forse questa lettura della diplomazia di Washington era frutto di un malinteso, o forse le cose si sono complicate in seguito, come ha suggerito lo stesso Trump nell’incontro di martedì alla Casa Bianca con Moon Jae in. Dietro la trattativa degli ultimi mesi c’era la mano poco visibile della Cina, che lo scorso gennaio ha aderito per la prima volta con maggiore rigore alla richiesta di una serrata delle provvigioni petrolifere alla Corea del Nord, e poi ha agevolato i contatti tra Pyongyang e Seul incontrando Kim a fine marzo.
IL TAVOLO SEPARATONel frattempo Pechino è anche coinvolta in un tavolo separato con gli Usa sullo scambio commerciale, il cui sviluppo ha avuto un andamento alterno, e che nelle ultime settimane ha mostrato diversi punti di frizione. Trump ha insinuato che sia stato Xi Jimping a chiedere nel corso di un secondo incontro con Kim lo scorso otto maggio che la Corea del Nord rilanciasse la posta, e cominciasse a chiedere una chiusura a tappe del programma nucleare. La Cina con un calcolo cinico avrebbe usato Kim Jong-un come una pedina per rafforzare la sua posizione nel negoziato commerciale, e Kim avrebbe ubbidito. Trump è rimasto contrariato da questo sviluppo ma nella conferenza con Moon aveva lasciato intendere che forse un margine di negoziato sui tempi e i modi della denuclearizzazione poteva esserci. Mercoledì invece l’amministrazione era tornata a parlare con Pompeo di un «taglio netto» e a minacciare l’alternativa di una soluzione alla libica che ha dato poi l’estro per gli ultimi messaggi di ostilità.
DUE IPOTESIFin qui la cronaca degli eventi, ma sullo sfondo ci sono ancora due chiavi di possibile lettura: in primo luogo l’ipotesi che il regime di Pyongyang avesse pianificato fin dall’inizio l’intera strategia del negoziato con finale a sorpresa, e che Kim sia stato il vero regista di una farsa che continua a ripetersi di generazione in generazione. O in alternativa l’idea che questo teatro dell’Apocalisse perenne che il mondo sta vivendo, un giorno i dazi a tappeto, l’altro l’olocausto nucleare, siano più semplicemente gli strumenti di negoziato che Trump, il maestro del Deal Making, ama usare nella sua rincorsa forsennata della vittoria a tutti i costi.