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 2018  maggio 24 Giovedì calendario

La poesia di Kekiche


Ignorato dalla giuria della Mostra di Venezia a settembre, il film di Kechiche era però uno dei titoli più ambiziosi, e ha fatto molto discutere. Primo capitolo di un’ideale trilogia tratta dal romanzo autobiografico di François Bégaudeau (quello di La classe), racconta un’estate della giovinezza di Amin, francese di origini tunisine, nella sua cittadina balneare sul Mediterraneo; e si sospetta che nella storia, ci sia un trasporto molto autobiografico da parte del regista: il romanzo è ambientato in un altro luogo, in un’altra epoca e in un altro contesto sociale.La prima sequenza è una dichiarazione di voyeurismo: Amin (Shaïn Boumedine), appena tornato a casa per le vacanze dopo un anno di università a Parigi, scruta non visto il lungo amplesso di Ophélie (Ophélie Bau), coetanea splendidamente prosperosa, con l’amante Toni. Il fidanzato ufficiale di Ophélie è partito militare, e anche il protagonista è in realtà innamorato della ragazza. Il film è diviso in lunghe sequenze, più un epilogo: la sera al bar, i giochi al mare, la famiglia, le passeggiate. Ma la vera trama del film sono gli incontri, gli sfioramenti e una sensualità diffusa, mostrati nel loro scorrere quasi in tempo reale, secondo lo stile già visto in La vita di Adele oCous Cous, ma insistendo meno sulle sfumature sociali e tuffandosi all’interno del calore fisico di una comunità araba prima del fondamentalismo.Ogni scena è costruita a comunicare ariosità, libertà, con dialoghi spontanei da Rohmer più proletario e un’adesione rapita, come se la macchina da presa fosse impugnata da un coetaneo arrapato dei personaggi, che si incolla ai corpi femminili, filma ad altezza di sedere, indugia sulle loro nudità.In realtà, lo confesso, il versante “cornetto cuore di panna”, con quest’estate al crepuscolo e il prendersi e lasciarsi, dirsi e non dirsi, è la cosa più affascinante, magari soprattutto per uno spettatore (maschio) che aveva l’età dei protagonisti all’epoca dei fatti (l’estate è quella del 1994); gli attori sono di una naturalezza ipnotica, e nelle tre ore di durata certo non ci si annoia. Solo che ogni tanto si sente come una “spontaneità programmata”, un’insistenza nei controluce, nelle musiche settecentesche. E talvolta il partito preso si fa lampante: ad esempio, nella scena del parto simbolico di un agnellino, mostrato in tempo reale ma su note di Mozart e con stacchi di montaggi a renderlo più “espressivo”. Insomma, la potenza del film nasce da un estetismo squisito, da un lavoro “di testa”, affascina e genera sentimenti ambivalenti, e l’impressione è di assistere a un’elegia panica, all’ombra delle fanciulle in fiore, che preluda al romanzo di formazione dei capitoli venturi.