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 2018  maggio 23 Mercoledì calendario

Intervista a Camarena

Javier Camarena è la prova cantante che o i teatri italiani non sanno bene quel che succede nel resto del mondo o che il resto del mondo dei teatri italiani non sa che farsene. Camarena, messicano, 42 anni, non è solo uno dei più celebri tenori su piazza, ma anche dei migliori, provvisto di acuti epici che spara in un repertorio per lo più rossiniano in evoluzione verso Bellini e Donizetti. Amatissimo al Met, è uno dei tre cantanti ad averci concesso un bis negli ultimi settant’anni(gli altri, Pavarotti e Florez). Ma in Italia Camarena ha cantato una volta sola, in un concerto con Abbado a Bologna, e mai l’opera. Quindi il suo recital di stasera per ora è un’occasione più unica che rara.
Succede tutto al teatro Fraschini di Pavia dove la Scala delocalizza un Festival di musica sacra con la quale peraltro la serata-Camarena c’entra nulla. Si tratta infatti di un Omaggio a Manuel García che vede la partecipazione di Cecilia Bartoli e dell’orchestra monegasca di cui è direttrice artistica, gli ottimi Musiciens du Prince diretti dal non meno bravo Gianluca Capuano. Quanto all’omaggiato, rapido ripasso: celebre tenore d’inizio Ottocento, anche compositore, con all’attivo due prime assolute rossiniane, altrettante figlie superstar, la Malibran e la Viardot, e un figlio autore del più studiato trattato di canto della storia.
Camarena, iniziamo con la sua storia.
«La musica mi è piaciuta fin da piccolo, anche se in casa si ascoltava soprattutto quella popolare messicana. Ho deciso di fare di questa passione una professione a 19 anni. Suonavo pianoforte e chitarra, ma per il Conservatorio ero troppo anziano e così ho scelto il canto. Cinque anni dopo, ero a Zurigo, alla scuola dell’Opernhaus».
I primo tenore che abbia mai ascoltato?
«Plácido Domingo. In un disco di canzoni per bambini di Francisco Gabilondo Soler, detto Cri Cri».
Scelga una voce tenorile che ama, una sola.
«Fritz Wunderlich senza nessun dubbio».
Araiza, Alva,Palacio, Florez: perché ai tenori sudamericani piace tanto Rossini?
«Beh, l’importante è che noi piaciamo a lui. In effetti, quando ho debuttato il mio primo Rossini, L’italiana in Algeri, di lui sapevo pochissimo.In Messico non c’erano né una tradizione né una scuola rossiniana. Forse è una questione fisica: si solito lì non siamo molto alti, quindi abbiamo le corde vocali corte e la voce acuta».
Perché fa tanti bis?
«Perché me li chiedono. E se il pubblico è felice sono felice anch’io. L’opera è anche emozione, empatia fra palcoscenico e sala. Se la gente vuole risentire un’aria, la accontento».
Perché in Italia non canta?
«Non lo so. Gli inviti non mancano. La Scala mi aveva chiesto l’Otello, quello di Rossini naturalmente, ma offrendomi Jago che per me non era tanto interessante. L’Arena mi aveva proposto un Almaviva. Il problema è che le proposte per l’Italia arrivano sempre molto tardi, mentre io ho l’agenda fissata con grande anticipo».
In anticipo, quanto?
«Attualmente ho impegni fino alla stagione 2021-’22».
Ma è possibile fare una grande carriera nell’opera senza passare dall’Italia?
«Sì, ma è un peccato. Il pubblico italiano è una sfida, si sa che è difficile da convincere. La tradizione la senti. Insomma, a me venire in Italia piacerebbe».
Perché l’omaggio a García?
«È nato tutto da Cecilia (Bartoli, ndr). Quando fece il suo disco sulla Malibran, mi segnalò le musiche del padre. È difficile trovare le parti, ma ne vale la pena. Scrisse circa cinquanta opere e quelle che conosco sono interessanti».
Ultima domanda: un concerto di crossover lo farebbe? Dica di no, per favore.
«Sì, invece.Sarebbe un modo per avvicinare nuovo pubblico all’opera. Per esempio, in Messico sono pazzi per Laura Pausini. E io un duetto con lei lo farei subito. Come faceva Pavarotti, no?»