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 2018  maggio 23 Mercoledì calendario

Il codice segreto dei cristiani

Viaggio nel monastero di Alqosh, vicino a Ninive, dove è custodito il manoscritto che testimonia la tradizione della chiesa siriaca. Sopravvissuto alle guerre in Iraq e all’Isis, racconta una storia molto diversa da quella ufficiale Questa è la storia di un manoscritto vecchio di 800 anni, che contiene il tesoro della chiesa siriaca: quella chiesa che non ha mai imparato a pensare nei termini della filosofia greca e che col suo impianto apostolico, culturalmente autonomo, ha creato un cristianesimo a oriente dell’Oriente. Un manoscritto che da un secolo e mezzo era sparito dalla scena. L’ho incontrato là dove aveva passato gran parte della sua vita. Ad Alqosh, cittadina ai bordi della piana di Ninive, sulla cui montagna Rabban Ormisda aveva edificato nel VI secolo un monastero ancora oggi visitato da pellegrini che venerano la grotta con gli anelli al soffitto ai quali, secondo la tradizione, l’eremita legava la barba e i capelli così da non addormentarsi e adempiere il comando di pregare senza sosta. Vista da lassù, dall’ingresso di quelle grotte, la piana di Ninive appare in tutta la sua potente fertilità: il verde dei campi dice di una prosperità millenaria e contesa, come se nel vento caldo fosse rimasto il rumore dei carri dei grandi imperi assiri, il segno dei simboli religiosi, la polvere delle civiltà giuridiche, il suono delle lingue diventare scrittura, la crudeltà dei potenti e la speranza di rivincita del povero di cui parla il profeta Naum, di cui ad Alqosh c’è la tomba. Due strade, ben visibili, danno spessore attuale alla storia questa regione in cui chi ha meno di quarant’anni ha vissuto sempre in guerra. La strada grande è quella che va dalla Turchia a Zakko e di lì a Erbil e giù fino Bagdad: è la arteria dei rifornimenti e degli scambi nel crocevia del Kurdistan. Quella piccola, perpendicolare più piccina discende da Alqosh verso Mossul, infilando una serie di villaggi che hanno visto l’avanzata delle brigate dell’Isis, che sono giunte fino a Teleskof, venti chilometri da questo monastero controllato dai peshmerga curdi. Il monastero di Alqosh testimonia di quasi quindici secoli di storia del cristianesimo siriaco. Da qui partì nel 1551 il processo di unione con Roma da cui è nato il patriarcato siro- cattolico, stabilitosi ad Amida. Sede dei patriarchi siro- ortodossi per un lungo periodo, il monastero subì spoliazioni violente e sanguinose da parte dei pascià curdi. Anche dopo che i caldei vi fecero rinascere grazie a Gawriel Dambo una vita monastica all’inizio dell’Ottocento. La regola dell’ordine antoniano di Sant’Ormisda dei Caldei fu infatti approvata da papa Gregorio XVI nel 1845 e il nuovo ordine si insediò nel 1858 nel più moderno monastero edificato a valle e dedicato a Nostra Signora delle Sementi: a quell’epoca, però, assalti dalla città di Soran e altre distruzioni avevano ormai ferito il patrimonio di arte e soprattutto di manoscritti della tradizione siriaca. In quegli stessi decenni l’Europa formava alcuni specialisti del siriaco, una lingua semitica con caratteri e radici simili all’ebraico, praticata da popoli che pregano in aramaico, la lingua di Gesù e del Talmud. Fra questi Jean- Baptiste Chabot, prete di Tour di formazione lovaniense e poi studioso all’Ecole pratique di Parigi. A lui si era rivolto Louis Duchesne, il grande storico del cristianesimo antico la cui opera a fine Ottocento venne accusata di “modernismo”. Duchesne chiedeva a Chabot un’edizione o almeno una traduzione dei testi fondativi della chiesa siriaca – e non era una richiesta di pura erudizione. Le chiese siriache mettevano e mettono infatti in crisi lo schema binario che vede nel cristianesimo una tradizione occidentale ( latina e da quella protestante) e una tradizione orientale ( ortodossa e poi russa). I discendenti di quelli che proprio ad Antiochia per la prima volta furono chiamai “cristiani” dicono che c’era un cristianesimo senza impero, orientato a culture non greco- latine, anzi cresciuto ignorandole o rifiutando quel “diritto perpetuo ed irrevocabile” che Ratzinger ritiene acquisito dalla cultura greco- ellenistica nei primi quattro secoli cristiani. Duchesne, dunque, aveva buone ragioni per sperare in una edizione/ traduzione del Synodicon contenente la tradizione canonica, conciliare e liturgica dei primi sette secoli del cristianesimo siriaco. Questo tesoro era in un manoscritto rimasto ad Alqosh ( NDS 60 poi 169), che nessuno poteva vedere. Ne aveva fatto fare una copia ( a mano) il vescovo caldeo di Mossul, Joseph David, e l’aveva portata a Roma nel 1869, per il Museo Borgia, da dove era andato alla Biblioteca apostolica vaticana ( BorSyr 81- 82 visibile online). Chabot lo studiò e trascrisse: chiese all’abate di Alqosh di vedere l’originale, ma tutto ciò che ebbe fu un’altra copia rimasta a Parigi ( BN 332). E da queste due fonti di seconda mano cavò nel 1902 l’edizione critica del Synodicon Orientale, prima fonte della storia conciliare delle chiese collocate fuori dall’impero bizantino, in disaccordo con le definizioni di fede di Calcedonia, portatori di un dinamismo missionario che era arrivato a predicare il vangelo in Cina già nel VI secolo. L’originale non fu più studiato. Trasferito per ragioni di sicurezza a Bagdad cambiò numerazione, ma nessuno lo vide fino a che il lavoro di edizione critica dei concili delle grandi chiese ( la serie COGD promossa dalla fondazione per le scienze religiose) iniziò a cercarlo. Ma a causa della guerra quel manoscritto – ora indicato come Bagdad 509 – fu portato via dalla capitale irachena e salvato dal rischio di essere “messo al sicuro” degli eserciti occupanti nel 2006. Scelta provvidenziale perché l’area in cui stava fu bombardata dagli sciiti. Ma su Al Qosh dove il manoscritto era tornato, dal 2014 incombeva la minaccia dell’Isis: e il prezioso manoscritto venne portato al sicuro a Zakko. Ora, finita la guerra con l’Isis è stato stivato in un luogo segreto, protetto dal riserbo dei monaci che non volevano consegnarlo alla discutibile operazione che con la scusa di “salvare” i manoscritti, in realtà rende le loro copie digitali disponibili all’estero, in grandi università che, con le migliori intenzioni, si rendono complici della spoliazione di una terra e di una chiesa. Da quel deposito il manoscritto è arrivato sul tavolo dell’abate che mi ha concesso di vedere e studiare questo reperto unico. Solenne nella sua mole. Ferito dal tempo e dalle disavventure. Ma capace di parlare. Parla, infatti, il Bagdad 509 agli eruditi che stanno per dare nella serie COGD la prima vera edizione critica del’intero Synodicon. Parla al monastero che lo ha custodito e salvato e che ha in animo di dare una casa sicura a questo manoscritto inestimabile e ad altri che ho potuto vedere con commozione. Parla e rivela che ancora una volta nella ricerca più di nicchia – quella che di cui Tullio Gregory giustamente lamenta lo svilimento operato dal semplicismo ingegneristico che ha devastato il sistema del sapere – ci sono significati generali e universali.