la Repubblica, 22 maggio 2018
Negli scatti di Ghirri l’anima segreta dell’architettura
Fotografo dello spazio aperto, Luigi Ghirri è sempre stato attratto dall’immagine dell’architettura, tanto che si può dire che, sin dai suoi inizi, abbia fotografato solo quello: lo spazio e l’aria che avvolge le architetture. Fotografo delle due dimensioni, Ghirri ha esaltato l’architettura per quello che è nel suo apparire, nel suo manifestarsi a distanza.
Un casolare, i tetti azzurri del cimitero di Modena, i cartelloni pubblicitari, la Tomba Brion, una quinta teatrale, sono stati tra gli oggetti del suo sguardo. Ogni volta che scatta, Ghirri esalta l’intorno delle architetture, la loro natura inequivocabile d’immagini che s’imprimono nella memoria degli uomini e delle donne. Ghirri non è stato il fotografo dell’architettura vissuta, percorsa con il corpo, bensì il fotografo dell’architettura guardata. C’è un punto originario della sensibilità percettiva di Ghirri: i dipinti dello zio e le cartoline delle città. Il suo sguardo si è allenato su quei quadri così che, quando si è trovato a fissarli dentro l’obiettivo della sua macchina, è stato attratto dalla loro capacità fiabesca di farci sognare, d’immaginare.
Che si tratti di un luna park a Trani o invece a Formigine, di un’insegna oppure di un’automobile che passa, nel suo rettangolo colorato c’è un’apparizione, qualcosa di visto o intravisto per un momento, fissato per sempre, così da restare preso in un’immagine. Ghirri non è un fotografo di cose, neppure quando ritrae, come ha fatto, le stanze della casa di Giorgio Morandi. Quando Lotus nel 1983 gli chiese di esplorare il paesaggio italiano, Ghirri si mise in moto per riattraversare lo spazio della pianura, a lui ben noto, o per varcare le Alpi per cogliere i giardini di Versailles. Il punto di vista che scelse non fu però quello dell’architetto. Non gli interessavano i volumi e gli edifici. Voleva cogliere il modo attraverso cui le architetture, fossero anche quelle di un giardino reale, disegnano l’intorno, come si rapportano alla terra e alle nuvole, come appaiono al viaggiatore che le vede per la prima volta. Una delle sue frasi preferite è di Giordano Bruno. Recita: “Le immagini sono enigmi che si risolvono con il cuore”. Tutte le sue immagini rimandano sempre a qualcosa di già visto. Le circonferenze di Carlo Scarpa che s’intersecano sono disegni tracciati su un foglio da uno scolaro, i personaggi di de Chirico nella fontana della Triennale eroi di una fiaba, la casa illuminata e gli alberi a Fidenza memoria infantile, gli oggetti appoggiati davanti a una fotografia l’angolo di un ripostiglio o di un solaio. Le sue immagini contengono qualcosa che vedremo, in futuro, che ancora non conosciamo, ma che già sono. Per questo le immagini sono “enigmi” nel senso etimologico: “racconti, sentenze, favole”. Rimandano a qualcosa di attivo non solo nello spazio, ma anche nel tempo, un tempo che è stato e che poi verrà. Gianni Celati tra i primi ha compreso questo valore evocativo e insieme narrativo della fotografia di Ghirri quando ha scritto: “risponde che è anche possibile pensare che il tempo rinnovi, che ogni scatto accidentale rinnovi la percezione, invece d’essere soltanto la pietra tombale dei momenti di vita”. La grande qualità della sua fotografia non è stata solo quella di elevare il nuovo paesaggio italiano – i viadotti, le pompe di benzina, le “case geometrili”, gli incroci autostradali, i semafori, i campi giochi, le panchine – a oggetto di uno sguardo incantato e carezzevole, ma di aver esercitato quel medesimo sguardo in ogni punto dello spazio che inquadrava con il suo obiettivo.
La macchina che passa è uno di quegli oggetti che cadono dentro i suoi riquadri: le ombre sul veicolo fuggevole, sfuocato, che si frappone tra sé e il paesaggio, e il guidatore quasi un’ombra, sagoma inafferrabile. Un giorno, a Reggio Emilia, fermo davanti a un doppio semaforo in alto, Ghirri scattò un’immagine di quella simmetria aerea. Dallo scatto, con l’aiuto dello stampatore, tagliò via le auto davanti a lui e sospese quei due cerchi rossi evanescenti nell’aria. Una delle sue più belle immagini. L’inafferrabile era lì, davanti a noi, ma ci voleva il suo occhio incantato per coglierlo e per mostrarcelo.