Corriere della Sera, 22 maggio 2018
I grandi italiani che furono grandi americani
Fu subito amore e odio. Inizialmente, più odio che amore. Non c’era da aspettarsi altro nel Nuovo Mondo scoperto dall’italiano Cristoforo Colombo nel 1492. Nelle immense praterie degli Stati Uniti i nostri migranti arrivarono piuttosto tardi, anche se qualche italiano già spiccava nell’albo d’onore della Guerra d’Indipendenza, come Filippo Mazzei, toscano, che rifornì d’armi i coloni ribelli e, si dice, coltivasse l’amicizia di Thomas Jefferson, John Adams, James Madison e dello stesso George Washington.
Poi, unita l’Italia, i bastimenti in partenza dalla Penisola cominciarono a saturarsi e nei primi 20 anni del ‘900 almeno quattro milioni di italiani provarono a sognare un futuro migliore a New York, Chicago e, giù giù, fino in California. A più riprese dovettero sperimentare la giustizia sommaria dei cow boys locali, definita «linciaggio» dal nome di un paio di latifondisti della Virginia: Charles e William Lynch. Non si sa da quale dei due, ma è noto come entrambi fossero piuttosto sbrigativi nel risolvere le questioni legali. Sulla testa dell’italiano pendevano due pregiudizi: malavitoso e sovversivo. Una piccolissima minoranza marchiò a fuoco la gran parte degli immigrati che invece contribuì a trasformare un mondo selvaggio nella prima potenza mondiale nel ’900. L’apice delle ingiurie subite dagli italiani venne toccato il 23 agosto del 1927, quando Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti salirono sulla sedia elettrica nonostante le testimonianze avessero acceso dubbi sulla loro colpevolezza. Non importava la verità, l’America voleva spingere all’estremo il pregiudizio. Sacco e Vanzetti dovettero attendere 50 anni, un film e una canzone diventata virale per essere definitivamente riabilitati.
Eppure già allora gli italiani facevano grande l’America. Prendiamo Amedeo Pietro Giannini: figlio di immigrati a San José in California, nel 1904 fondò la prima banca commerciale, la Bank of Italy, disposta a finanziare chi non trovava credito altrove; svolse un ruolo fondamentale nella ricostruzione di San Francisco, distrutta dal terremoto del 1906, supportò la nascente industria cinematografica di Hollywood, la costruzione del Golden Gate Bridge e contrastò la crisi del ’29.
Quando nel 1930 assunse il nome di Bank of America, a molti italiani parve di essere stati ammessi al salotto buono di quell’immenso paese dei balocchi dov’erano spesso costretti a soggiornare nella stalla. Di lì a pochi anni, nel 1933, un italiano altro poco più di un metro e cinquanta, The Little Flower, Fiorello La Guardia, sangue pugliese e triestino, venne eletto sindaco di New York e nei 12 anni di sua amministrazione, con rigore morale e onestà, arginò la nuova ondata di pregiudizi che la mafia italo-americana fece montare negli anni del Proibizionismo. Entrò nei libri di storia la sua battaglia contro il gioco d’azzardo e l’immagine di migliaia di flipper ridotti a rottami di ferro e «donati» alla patria per contribuire alla lotta contro il nazi-fascismo.
Siciliano di origine era Frank Capra, astro nascente di Hollywood. Con i suoi film contribuì a educare i giovani allo spirito patriottico americano. Giuseppe (Joe) Di Maggio, classe 1915, nei ruggenti anni ‘20 e ‘30 si preparava a diventare l’idolo di tutti gli americani sui campi da baseball, come lo era stato, prima, Rodolfo Valentino, stella tramontata precocemente dopo aver fatto innamorare milioni di americane e aver osservato l’America ai suoi piedi dalla sfarzosa villa, Nido di falco, fatta costruire sulla collina di Beverly Hills. Piedi, per inciso, tra i più ammirati di Hollywood, perché calzavano scarpe realizzate da un italiano che in breve conquistò il jet set: Salvatore Ferragamo, irpino, giunto negli Stati Uniti nel 1914 già con l’idea di diventare il principe dei ciabattini. Ne divenne addirittura il re, prima di tornare, nel 1927, in Italia. Lo imploravano di «decorare» le loro estremità le divine Joan Crawford e Jean Harlow; Gloria Swanson si muoveva sinuosa su tacchi a cavaturaccioli ornati di perle finte; Dolores Del Rio gli commissionò scarpe arcobaleno e Esther Ralstone calzò sandali a serpente con scaglie dorate. Gli Usa cominciavano a imparare che i peccati di alcuni italiani erano ampiamente compensati dalla genialità e generosità di altri.