la Repubblica, 20 maggio 2018
Non siamo mica gli americani. Intervista a Jacques Herzog
Non chiamatelo archistar. Quel termine lui, Jacques Herzog, proprio non lo manda giù. Ma se lui e il partner di progetti stellari Pierre de Meuron ( sono entrambi svizzeri nati nel 1950, premi Pritzker) non si considerano divi dell’architettura, le opere che hanno firmato parlano per loro: dalla Tate Modern di Londra al “grattacielo orizzontale” della Fondazione Feltrinelli di Milano, dove Herzog tornerà giovedì 24 maggio per una lecture del festival “About a City”.Mr Herzog, lei preferisce il low profile. Ha detto: “L’influenza dell’architettura è limitata”. Che cosa intende?«L’architettura è locale, legata al luogo specifico di una città. Caratterizza un posto e le sue vicinanze, e questa è una cosa molto importante, che influenza la vita quotidiana di quelli che vivono e lavorano lì. Tutto qua. Naturalmente ci sono anche edifici con una portata e una visibilità più internazionale, e alcuni di questi li abbiano progettati noi. Ma sono eccezioni. Alcune di queste architetture possono sopravvivere per molte generazioni, ma gli autori che vi sono dietro vengono dimenticati. Gli architetti raramente vengono ricordati dal grande pubblico, al contrario delle star del cinema o dei pittori, dove l’opera individuale è più immediatamente collegata al suo creatore».Quale è la buona architettura? E quella cattiva?«La buona, e in particolare la grande architettura, sopravvive grazie all’ammirazione emotiva e intellettuale che nutriamo per essa, specialmente quando dura per generazioni. La cattiva architettura scompare dopo aver infastidito tutti per molti anni. Ma ci sono eccezioni a questa regola: a volte cattivi edifici sopravvivono perché ci siamo abituati a loro e siamo convinti che siano qualcosa che fa parte di noi e della nostra città. Questo è l’aspetto psicologico dell’architettura, che è molto affascinante ma difficile da pianificare».Il concetto di archistar oggi è spesso sotto accusa. Lei cosa ne pensa? Che cosa può fare un architetto per trovare un equilibrio tra la sua personalità e l’utilità del suo lavoro?«Non ho mai dedicato molto tempo a definire il ruolo dello studio Herzog & de Meuron nel quadro di un concetto di Starchitettura. È un termine così usurato… non si capisce neanche cosa significhi! La nostra intenzione, in ogni progetto, è di trovare una soluzione specifica e adeguata ( cliente, budget, condizione del sito, politica) e creare idealmente qualcosa di bello, che piaccia alle persone».A lei e a de Meuron è capitato di lavorare con degli artisti. Che cosa avete imparato da loro?«Sono particolarmente attratto dagli atteggiamenti poco pretenziosi, da una sorta di approccio radicale e “spietato” quando si tratta di affrontare nuove sfide, nuovi progetti. I nostri amici artisti spesso sostengono questo tipo di atteggiamento!».L’Oriente – dalla Cina al Qatar agli Emirati – mostra grande interesse verso gli architetti europei e americani. Perché questi Paesi hanno bisogno dei brand occidentali?«Il potere politico e finanziario si sta spostando sempre più verso est, nel nostro pianeta. L’arte e l’architettura seguono naturalmente queste tendenze geopolitiche e il flusso delle nuove influenze. Non è molto diverso dal periodo in cui i monarchi europei del XVII e XVIII secolo facevano a gara per attirare nelle loro corti di Parigi, Londra o Madrid, i migliori pittori e architetti».Il palazzo della Feltrinelli a Milano appare come un grattacielo orizzontale. Come ha deciso di realizzare questo progetto?«Milano è una città con un’impronta urbanistica molto specifica: l’isolato che definisce i corsi, le vie, le piazze. Ogni edificio è parte di questo principio urbano e definisce il proprio ruolo all’interno di questo schema. ( Con alcune eccezioni come la Torre Velasca o il Grattacielo Pirelli vicino alla Stazione Centrale.) È questo concetto urbanistico quasi ostinato dell’“isolato” che fa la bellezza e l’unicità di Milano. Perché dovremmo cambiarlo? L’edificio Feltrinelli segue la logica di questa importante eredità storica in una versione molto contemporanea. Ovviamente contrasta in modo netto con l’urbanistica di Porta Nuova, che crea poca urbanità a livello della strada. A parte qualche singolo edificio di quell’area, per esempio il Bosco Verticale dello Studio Boeri, onestamente non penso che Milano abbia bisogno di altri esempi di quel tipo di urbanistica “americana”».La vostra opera più nota è la Tate Modern. È anche la vostra preferita?«Alcuni edifici ti incantano sempre, e vale anche per la Tate Modern. Ma non provo una grande nostalgia per le cose che abbiamo fatto in passato. Quando rivediamo i nostri edifici a volte ci piacciono molto, ma spesso scopriamo anche dei difetti che ci danno da pensare e ci fanno dubitare di noi stessi. Rivedere un edificio può essere molto utile».