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 2018  maggio 20 Domenica calendario

APPUNTI SUL VENEZUELA PER ANTEPRIMA

ROBERTO DA RIN, IL SOLE 24 ORE 20/5 –
È un Venezuela in fiamme, di contrapposizioni forti e sanguinarie. Per questo, tra chi non partecipa attivamente alla guerra guerreggiata, si scorge quella rassegnazione che nasce quando, alzando gli occhi al cielo, non si vedono più stelle. Sarebbe il giorno della verità, se fosse un normale voto presidenziale. Invece l’elezione di oggi è solo un’altra tappa di una guerra politica ed economica tra due fazioni: i pretoriani del presidente Nicolas Maduro e gli oppositori (dis)uniti solo dall’avversione al governo. La partita venezuelana è di grande rilevanza, non solo per i 31 milioni di abitanti di un Paese ricchissimo di petrolio e poverissimo di tutto il resto. Ma per gli equilibri geopolitici delle Americhe: in quella del Sud, per il traino e le sinergie energetiche con gli altri Paesi, e in quella del Nord, per la preoccupazione di perdere un grosso fornitore di greggio.
Vi è anche l’inquietudine conseguente alle alleanze incrociate: Cina, Russia, India e Cuba, a favore di Maduro. Stati Uniti vicini all’opposizione che si nutre della speranza di un soft-ribaltone, sostenuto appunto da Washington che venerdì per la prima volta ha accusato Maduro in persona di profittare del narcotraffico. Nessuno dei 4 candidati lo dice, ma tutti guardano più alle alleanze politiche internazionali che al risanamento economico. Né il presidente Maduro (ultrafavorito), né Henri Falcon, l’oppositore ex chavista che oggi propone ricette liberiste, né Reinaldo Quijada, ingegnere elettronico, né il pastore evangelico Javier Bertucci, la predica a favore dei poveri e il conto corrente a Panama, credono davvero a un rilancio dell’economia in tempi brevi.
La conferma arriva dai think tank cui si appoggiano i candidati. In un Paese dilaniato dalle ideologie, l’unico filo rosso che unisce tutti è la consapevolezza di assistere a un dramma sociale ed economico. Sì perché sia il socialismo del XXI secolo, termine coniato dall’ex presidente Hugo Chavez, sia l’ultraliberismo degli oppositori incorporano una forte componente ideologica. Gli economisti, chavisti e liberisti, presentano ricette antitetiche ma il “sentiment” di tutti è pessimista. Guillermo Oglietti, ricercatore del Celag, pur essendo vicino al governo ritiene siano necessarie riforme radicali: la diffusione del “petro”, il bitcoin venezuelano, l’introduzione di misure che abbattano la speculazione finanziaria, un sistema di produzione da rivisitare affinché il potere dei potentati economici venga eroso. Ma «non sarà facile implementare le riforme», dice.
Di segno opposto le ricette di Annabella Abadi, ricercatrice di “Entorno e Gestion publica”: più fiducia al mercato, meno pervasività statalista, attenzione alla spesa pubblica e meno sussidi e servizi sociali affiancati da un rilancio dell’iniziativa privata. «È certamente una ricetta liberista, ma è difficile trovare punti di dialogo». Coerente con l’opinione di Asbrubal Oliveros di Ecoanalitca secondo cui il cambio profondo sarà necessario ma potenzialmente esplosivo.
Lo scenario è desolante, in una Caracas irriconoscibile per la violenza e la difficoltà a reperire alimenti di base e l’inutilità di una moneta, il bolivar, che nessuno sa quanto poco possa valere. L’unica certezza è che con l’inflazione al 1200%, o forse più, nessuno la può misurare con precisione; le valigie, per chi non è emigrato altrove, sono indispensabili per accatastare bolivares necessari all’acquisto, quando lo si trova, di un litro di latte. Miguel, 52 anni, insegna matematica in una scuola superiore della capitale, ammette di sapere poco di economia ma esprime la sua «preoccupazione per un Paese che non sa arrestare il suo degrado, per colpa di un governo incapace di pacificare e offrire dignità».
Eppure vi è una solida base di fedelissimi a Maduro, l’erede poco carismatico di Chavez che governa dal 2013. In uno dei ranchitos, le baraccopoli che attorniano Caracas, Marisol, dietro al suo banchetto di chincaglierie, lo dice chiaro: «Ci saranno pure voti comprati, non il mio. Ho sostenuto Chavez, nel 1998, quando si è presentato sulla scena politica, e vent’anni dopo non cambio idea. Per la prima volta abbiamo preso coscienza di cosa sia e come funzioni un Paese. Ebbene, voglio la mia Rivoluzione».
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LUCIA CAPUZZI, AVVENIRE 20/5 –
In apparenza, le presidenziali di oggi sono le più scontate del passato recente venezuelano. Nicolás Maduro le ha convocate – o meglio l’Assemblea Costituente da lui voluta – per vincere e restare al potere altri sei anni. Nei mesi precedenti, dunque, la Corte Suprema, fedele al governo, ha messo fuori gioco i candidati più temibili dell’opposizione. Una mossa che ha provocato l’ira della comunità internazionale, determinata a non riconoscere i risultati. Mentre i vescovi hanno chiesto più volte – l’ultima martedì – di rinviare la competizione. La pressione, però, ha sortito l’effetto desiderato: ha sgretolato la già fragile Mesa de unidad democrática (Mud), coalizione di partiti anti-chavisti.La maggioranza di questi ultimi ha deciso di boicottare le elezioni, definite «non trasparenti » e di incitare all’astensione di massa. Una minoranza dissidente, invece, concorrerà. A rappresentarla, Henry Falcón, ex chavista passato alla Mud e ora accusato da quest’ultima di «tradimento». Alla corsa, partecipano anche altri due candidati indipendenti, l’ex pastore evangelico Javier Bertucci, e l’ingegnere Reinaldo José Quijada. È Falcón, però, l’unico potenziale elemento di disturbo per il governo. Secondo il noto politologo di Datanálisis, Luis Vicente León, il gradimento di quest’ultimo supera quello di Maduro di 1012 punti. «Ma tutto dipenderà dall’affluenza. Quanta più gente andrà a votare, tanto maggiori saranno le chance di Falcón. L’astensione, data la frattura all’interno dell’opposizione, finirà per favorire il presidente in carica». Falcón, però, potrebbe rappresentare una via d’uscita interessante per i settori chavisti moderati, ansiosi di sbarazzarsi dell’ormai screditato Maduro. Non è possibile, dunque, escludere del tutto un colpo di scena.

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Nicolás Maduro è «un rivoluzionario dalla testa ai piedi, un uomo di grande esperienza nonostante la giovane età, dedito al lavoro, abile nel gestire i gruppi e le situazioni difficili». Sono lontani i tempi in cui Hugo Chávez doveva sperticarsi nelle lodi di colui che si apprestava a designare come successore. Quella volta, l’8 dicembre 2012, il caudillo, in procinto di sottoporsi a un quarta operazione per il tumore che lo stava consumando, arrivò a «implorare di cuore» i seguaci di votare per il “delfino” in caso di una sua eventuale morte, cosa effettivamente accaduta soltanto tre mesi dopo.Del resto, il «prescelto» non aveva grandi meriti personali da offrire: privo del magnetico carisma del mentore, l’ex autista di bus e sindacalista prestato alla politica era un uomo grigio, dal basso profilo. La sua dote principale era la fedeltà incondi- zionata al leader. La supplica di Chávez morente, dunque, divenne il mantra delle presidenziali del 14 aprile 2013. E, seppure a fatica, sortì l’effetto voluto: il «discepolo» – come si autodefiniva – Maduro riuscì a battere di 235mila voti il rivale Henrique Capriles. Acqua passata. Nella campagna per l’elezione di oggi, l’attuale presidente ha rotto i ponti con il predecessore. Non in modo esplicito, è ovvio. L’onnipresente immagine di Chávez, però, è stata relegata in soffitta. I manifesti che li ritraevano insieme – leitmotiv del 2013 – sono stati sostituiti da gigantografie di Maduro, uomo solo al comando. È quest’ultimo a monopolizzare slogan, canzoni, iconografia. Il mutamento di scenografia in atto rivela una “metamorfosi” del sistema. Il presidente vuole sancire la «madurizzazione della rivoluzione bolivariana », come la definiscono gli analisti. Una scelta politica chiara e, al contempo, ardita. Dovuta all’evoluzione della situazione venezuelana. Cinque anni di crisi feroce hanno eroso il consenso nei confronti del presidente. A differenza di Chávez – la cui popolarità non scese mai sotto il 52 per cento –, Maduro arriva a fatica al 22. Quest’ultimo sa, dunque, di essere “in minoranza”.La sua sopravvivenza alle proteste della scorsa estate – con oltre 120 morti e centinaia e centinaia di feriti e arresti – è basata su una strategia differente rispetto al predecessore. Se quest’ultimo era in grado di mobilitare il «popolo» – o meglio la sua rabbia per decenni di esclusione dall’arena decisionale – contro «l’oligarchia corrotta», Maduro è consapevole di non avere i mezzi (né in termini di capacità personali, né di capitale politico, né di risorse economiche da trasformare in aiuti) per poterlo fare. Egli punta, dunque, su un mix di repressione verso il dissenso – enormemente cresciuta negli ultimi mesi – e abilità nello sfruttare le fratture interne e le ansie di protagonismo (parimenti smisurate) del fronte oppositore. Con quest’ultimo, il presidente non potrebbe competere ad armi pari.E non lo fa, disegnandosi un’elezione a propria misura. La campagna martellante delle ultime settimane non punta tanto ad ampliare il consenso esterno. È un messaggio rivolto all’interno del proprio schieramento. Molto più composito di quanto appaia a prima vista. Da una parte c’è il numero due Diosdado Cabello, uomo forte del sistema e canale privilegiato con le Forze armate, alleato-concorrente di Maduro. Dall’altra un settore chavista moderato, scontento della politica attuale e propenso – seppur in modo implicito – a una sostituzione del leader per accontentare piazza e comunità internazionale, evitando l’implosione interna.In mezzo, Maduro, deciso (e in parte obbligato) a giocarsi il tutto per tutto per restare in sella. Il “distacco” da Chávez, di cui altri possono rivendicare l’eredità politica, è funzionale a tale processo di riassetto degli equilibri in suo favore. Se quest’ultimo riuscirà, dipenderà in gran parte dai militari, spina dorsale, e al contempo, nel fianco del governo. Le recenti “purghe” dimostrano un diffuso malcontento nelle caserme. Dall’inizio dell’anno sono stati arrestati 34 alti ufficiali, tra cui quattro comandanti di battaglioni importanti. Altri 138 militari sono in stato di fermo o hanno disertato. Il fantasma del golpe agita Maduro ben più delle urne “addomesticate”.

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ALFREDO SPALLA, IL MESSAGGERO 20/5 –
Il Venezuela torna al voto fra le sanzioni internazionali, il boicottaggio dell’opposizione e le proteste scoppiate nelle carceri che hanno causato la morte di 9 detenuti e 2 agenti a Barquisimeto, capitale dello stato di Lara. In settimana si sono registrati sconti anche nel centro di detenzione dell’intelligence venezuelana, il Sebin, ma nulla sembra arrestare la volontà di Nicolas Maduro di rafforzare il suo mandato presidenziale. Era l’8 dicembre del 2012 quando Hugo Chavez annunciò che Maduro avrebbe preso il suo posto. Il 14 aprile dell’anno successivo Maduro diede inizio al suo polemico mandato, superando di pochissimi voti Henrique Capriles. Non mancarono le accuse di brogli, ma l’ex sindacalista tirò dritto, cercando di tracciare la sua idea di rivoluzione bolivariana. Cinque anni dopo, il Venezuela è al limite del collasso sociale ed economico. L’inflazione è arrivata al 13.779% nel mese di aprile, mentre i beni di prima necessità scarseggiano e la crisi migratoria ha assunto proporzioni preoccupanti. In questo scenario, l’opposizione della MUD, la Mesa de la Unidad Democratica, ha rinunciato a partecipare alla nuova tornata elettorale, non ritenendola «giusta» e «trasparente». Henrique Capriles, lo sfidante del 2014 ed ex governatore dello stato di Miranda, è stato inabilitato, mentre Leopoldo López, il leader che guidò le proteste del 2014, è agli arresti domiciliari. L’opposizione è convinta che qualsiasi elezione con Maduro al potere sarà condizionata da brogli elettorali, così attende che l’esecutivo imploda anziché legittimarlo ai seggi.
IL RIVALE Henri Falcón, uno dei tre candidati, però, non la pensa allo stesso modo. È fuoriuscito dalla coalizione di opposizione decidendo di sfidare Maduro. Ha un passato da chavista, ma in campagna elettorale ha promesso una conversione monetaria. Una specie di dollarizzazione del Venezuela. Sono candidati alla Presidenza anche il pastore evangelico Javier Bertucci e Reinaldo Quijada, editore della testata Aporrea e già fra le fila del PSUV di Chavez. Fino all’ultimo, l’opposizione ha chiesto loro di ritirarsi lasciando la corsa al solo Maduro. Al voto andranno più di 20 milioni. I sondaggi dicono che Maduro potrebbe ottenerne 5-6, ma lui punta a quota 10 milioni per raggiungere la barriera psicologica dei 10 milioni mai superata da Chavez. «Sono anti-elezioni», scrive il New York Times, riportando l’ultimo sondaggio Datanálisis, che vede Falcon avanti con il 30% e Maduro al 20%, nonostante solo il 34% degli intervistati sia già convinto di chi voterà. L’astensionismo dovrebbe essere decisiva. Usa, Ue, il gruppo di Lima - composto da 14 paesi dell’America Latina - e il Canada hanno già dichiarato che non riconosceranno il risultato. Non è solo una questione politica, ma anche formale poiché le elezioni non sono state indette dal Consiglio Elettorale, ma dall’Assemblea Costituente, creata da Maduro ed eletta senza essere riconosciuta dalla comunità internazionale. Russia, Cina, Bolivia, Siria e altri dovrebbero reputarle legittime. Gli Usa sono disposti a mettere in atto nuove sanzioni. Maduro, nel comizio finale a cui ha preso parte anche Maradona, ha detto di aver aperto il Paese a ispettori provenienti da 40 paesi. Juan Manuel Santos, presidente della Colombia, ha denunciato: «Fonti di intelligence ci avvertono di un piano di Maduro per schedare e trasportare colombiani in Venezuela per farli votare». Controcorrente la posizione dell’ex presidente spagnolo Zapatero, fra gli osservatori, che si è detto sicuro che «i venezuelani voteranno liberamente», accusando l’UE di pregiudizi sulle elezioni.
Alfredo Spalla

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ROCCO COTRONEO, CORRIERE DELLA SERA 20/5  –
A partire da stasera, a meno di sorprese dell’ultima ora, il Venezuela sarà governato da un regime autoritario non riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei Paesi occidentali. Caso unico nell’emisfero, così come è senza precedenti la crisi economica e umanitaria nella quale si svolgono oggi le elezioni presidenziali. Alla non accettazione del risultato da parte di Stati Uniti, Unione europea e quasi tutti i Paesi dell’America Latina, si è aggiunta nelle ultime ore una nuova ondata di sanzioni di Washington al regime. Stavolta ad essere colpito è il numero due Diosdado Cabello insieme al suo clan familiare, con accuse di narcotraffico e di furto di denaro pubblico. Nei mesi scorsi una misura analoga era stata presa dalle cancellerie europee per sette pezzi grossi del regime, in riferimento però alla repressione e all’esclusione di oppositori dalla competizione elettorale.
Illegittimo, dunque, o addirittura criminale il prossimo governo di Caracas secondo l’Occidente democratico; vittima dell’attacco imperialista, nella lettura della crisi che offre il chavismo per mantenere il residuo consenso. Quanto saranno credibili i risultati che l’authority elettorale diffonderà stasera è impossibile dire, senza osservatori internazionali, con l’unica eccezione di Zapatero (nella foto sopra con Maduro) che continua a parlare di voto pulito.Si cercherà di capire qualcosa di più dall’affluenza. Se cioè chi vuol far cadere il regime seguirà le indicazioni dei grandi leader dell’opposizione — non andare a votare — oppure l’appello di segno opposto del candidato alternativo a Maduro, Henri Falcon, secondo il quale una buona affluenza darebbe come ovvio risultato la sconfitta di Maduro e nessun imbroglio potrebbe occultarlo. In effetti non esistono precedenti di un governo che si riconferma in maniera democratica dopo un crollo del Pil di quasi il 40 per cento e una inflazione che ha ridotto i salari a due o tre dollari. Ma non va trascurato un altro fattore: il 70 per cento dei venezuelani sopravvive oggi grazie ai pacchi dono di cibo del governo e la paura di perdere anche quelli non va sottovalutata.

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EMILIANO GUANELLA, LA STAMPA 20/5 –
Alexandre Hernandez apre la porta della sua casa a Bello Monte, quartiere della classe media di Caracas. Cammina lentamente, parla con difficoltà e mostra subito la speciale macchina portatile che gli serve a calmarlo quando arrivano gli attacchi. Ha 42 anni e da sei soffre del morbo di Parkinson. Da tre anni dirige l’associazione dei malati venezuelani, che sono più di 36.000 e non riescono a trovare le medicine necessarie. La crisi economica e l’iperinflazione (8000% all’anno secondo il Fondo monetario internazionale, Fmi) ha svuotato le farmacie e lo Stato li ha abbandonati a sé stessi. «Ogni settimana qualcuno della nostra associazione muore nell’indifferenza generale. Ed è così anche per i pazienti oncologici, i trapiantati, i malati di Hiv e molti altri. Per il governo siamo un costo insostenibile». Una scatola da 24 pastiglie di Sinemet nella vicina Colombia costa 12 milioni di bolivares: 12 euro al cambio nero, ma l’equivalente di un anno di stipendio minimo secondo l’ultimo aumento elargito dal presidente Maduro. Alexandre e la sua associazione ricevono mensilmente dei pacchi donati da gruppi d’appoggio in Spagna, ma quello che arriva non basta per tutti. La settimana scorsa i medici dell’Ospedale dei tumori di Caracas hanno portato i loro pazienti più piccoli in piazza, denunciando il completo abbandono della struttura di cure oncologiche più importante del Paese.
La crisi diventa catastrofe
Il destino per centinaia di migliaia di persone è segnato; chi non può farsi curare all’estero, muore. L’impennata dei prezzi negli ultimi mesi è stata surreale e la gente sta soffrendo la fame. Un chilo di riso costa mezzo stipendio, uno di carne arriva a quattro milioni di bolivares, quanto guadagna un impiegato in due mesi. In Venezuela non si produce ormai nulla e nei supermercati arrivano prodotti importati di bassa qualità a un costo proibitivo; pasta turca, fette biscottate dal Messico, fagioli e lenticchie dalla Colombia. L’unica alternativa sono i mercati statali, con i prezzi calmierati, ma dopo due o tre ore di fila si porta a casa pochissimo. Lo Stato distribuisce delle «borse dell’emergenza» con riso, zucchero, pasta, fagioli; dovrebbero durare per un mese, ma per una famiglia di quattro persone non bastano per due settimane. Per riceverle è obbligatorio presentare il «Carnet della Patria», una specie di carta d’identità parallela che stabilisce la fedeltà al governo socialista. Secondo le cifre ufficiali ce ne sono poco più di sei milioni, tanti quanti i voti sicuri del chavismo nelle elezioni di oggi. Il governo giustifica tutto con la «guerra economica» architettata da Washington con la complicità dei governi di destra dell’America Latina e il placet della Ue. Maduro parla del «bloqueo» (embargo) come se si trattasse di Cuba. Un discorso che fa presa sullo zoccolo duro dei suoi sostenitori. Come i giovani del collettivo di Caricuao, un sobborgo alla periferia di Caracas, che ho seguito durante il comizio finale della campagna elettorale, sull’Avenida Bolivar. La generazione nata e cresciuta con Chavez giura fedeltà assoluta alla «Rivoluzione bolivariana». «Il comandante - spiega Josè – ci ha insegnato che si deve cercare sempre l’uguaglianza e che dobbiamo restare uniti nei momenti più difficili. I nostri nemici non sono quelli dell’opposizione, ma le forze esterne che li guidano e che cercano di boicottare il nostro socialismo». Maduro se la vede oggi con tre candidati oppositori, il più quotato dei quali è Henri Falcon, ex chavista, che ha disertato l’appello all’astensione dei principali partiti anti-chavisti, sicuri che le elezioni non si svolgeranno con regolarità. Dopo aver stravinto le legislative del 2015 il capitale politico dell’opposizione si è dissolto e la gente non sa più cosa fare. Maduro ha esautorato il Parlamento, sostituendolo con l’Assemblea Costituente e i dubbi di brogli sono più che fondati perché controlla la giustizia elettorale.

L’opposizione in fuga
Gli errori dei suoi rivali sono stati enormi e oggi molta gente non si fida più di loro. Hanno prima cercato di destituire il presidente, sono scesi in piazza, poi hanno provato a dialogare con lui e alla fine hanno gettato la spugna chiamando alla disobbedienza civile. Molti dirigenti sono emigrati, il vuoto politico è enorme. Qualcuno, sottovoce, si augura un intervento militare esterno. «L’astensione - spiega Falcon nei suoi comizi – non serve a nulla, l’unico modo di rovesciare questo governo è batterlo alle urne». Nel frattempo, il grande esodo continua; secondo i calcoli più conservatori due milioni di persone hanno lasciato il Paese negli ultimi 6 anni. L’unica cosa certa è che le divisioni fra gli oppositori aiutano Maduro. Lontano dai consensi di Chavez, è praticamente sicuro di vincere oggi, assicurandosi altri sei anni di mandato. Se tutti gli scontenti votassero per lui, Falcon sarebbe presidente, ma non dovrebbe succedere. Il Venezuela è una polveriera e nessuno ha la forza di cambiare il capitano di una nave ormai alla deriva. 

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IL POST 20/5 –
Domenica 20 maggio in Venezuela ci saranno le elezioni presidenziali, che la stragrande maggioranza delle forze di opposizione – unite nella coalizione Mesa de la Unidad Democrática (MUD) – ha deciso di boicottare. Nicolás Maduro, presidente dal 2013, si presenterà per un nuovo mandato, mentre da diversi mesi i suoi principali avversari politici sono in prigione, in esilio o impossibilitati a ricoprire incarichi pubblici. Maduro negli ultimi anni ha fatto di tutto per rimanere al potere, compreso destituire e sostituire in blocco il Parlamento.

In un primo momento le elezioni presidenziali erano state fissate per il 22 aprile, e poi rimandate al 20 maggio. La decisione era stata presa dopo un accordo che il governo di Maduro aveva raggiunto con una parte minoritaria dell’opposizione, che aveva deciso di non boicottare le elezioni. L’accordo era stato firmato solo dai partiti che avevano deciso di presentarsi con Henri Falcón, candidato delle opposizioni espulso dalla MUD. Falcón ha promesso di mettere fine all’iperinflazione che impedisce ai venezuelani di procurarsi beni di prima necessità persino al mercato nero, di salvare l’economia del paese usando il dollaro come valuta, di aprire il settore petrolifero del paese agli investimenti stranieri, di eliminare il controllo sui prezzi, di liberare decine di prigionieri politici e di pagare i lavoratori con un salario minimo pari all’equivalente di 75 dollari al mese (attualmente il salario minimo, a causa dell’inflazione, è pari all’equivalente di 3 dollari al mese).

Il Venezuela sta attraversando da almeno tre anni una crisi economica e sociale profondissima e senza precedenti. Il governo non riesce a garantire cibo, energia e servizi di base ai suoi cittadini: migliaia di persone rovistano nei rifiuti quotidianamente per trovare qualcosa da mangiare o cercano di superare il confine. Negli ultimi due anni, infatti, più di un milione di persone ha lasciato il Venezuela cercando rifugio all’estero: si spostano principalmente in Colombia e in Brasile, arrivando a migliaia ogni giorno. È una crisi umanitaria enorme: l’acqua e l’elettricità mancano più volte al giorno, le file nei negozi e nei centri di distribuzione del governo sono lunghissime e gli ospedali trattano casi di malnutrizione di bambini quasi ogni giorno. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che l’inflazione del Venezuela – già considerata la più alta del mondo – raggiungerà quest’anno il 13 mila per cento, distruggendo completamente i mezzi di sostentamento delle classi più povere. La valuta della nazione, il bolívar, ha un tasso di cambio pari a quasi 700 mila dollari sul mercato nero e ogni giorno che passa vale sempre meno.

Nicolás Maduro è nato 56 anni fa a Caracas da madre colombiana e padre venezuelano. È presidente del Venezuela dall’aprile del 2013: prima era stato autista di autobus e rappresentante sindacale, presidente del Parlamento venezuelano, ministro degli Esteri e vicepresidente. Maduro è considerato da sempre l’erede politico di Hugo Chávez: prima di sottoporsi al suo quarto e ultimo intervento chirurgico per rimuovere un tumore, Chávez parlò in televisione chiedendo ai cittadini del Venezuela di affidarsi a Maduro nel caso lui fosse morto o se la malattia lo avesse reso incapace di fare il presidente. E così è successo: Maduro vinse le elezioni presidenziali del 2013.

I primi mesi di presidenza non furono facili per Maduro, che cominciò a pagare per le politiche economiche insostenibili adottate negli anni precedenti. I problemi più grossi erano legati alla mancanza di beni come latte, farina, zucchero e caffè. Con Maduro gli effetti della grave recessione economica cominciarono a farsi sentire di più rispetto agli anni precedenti, anche a causa dei grossi cambiamenti nel mercato internazionale del petrolio, su cui il Venezuela aveva basato la propria economia. La crisi ha causato molte proteste in cui sono morte più di 100 persone e che sarebbero state organizzate, secondo Maduro, dalle potenze straniere che lo volevano destituire. Sempre più isolato a livello internazionale, Maduro ha cercato in ogni modo di rafforzare la propria posizione: ha tolto i poteri legislativi al Parlamento controllato dalle opposizioni assegnandoli a un’Assemblea costituente da lui voluta, e ha stravinto le ultime elezioni amministrative grazie alle divisioni dentro l’opposizione e al boicottaggio del voto.

Falcón, il principale avversario di Maduro (ce ne sono altri due, ma sono dati molto in basso nei sondaggi), ha 56 anni, è un ex membro del Partito Socialista Unito di Maduro ed è presidente di Avanzada Progresista (AP), un partito di centrosinistra fondato nel 2012 che si definisce progressista, inclusivo e democratico. Dopo che Chávez fu eletto nel 1998, Falcón aiutò a riscrivere la Costituzione, poi divenne sindaco di Barquisimeto, una grande città del paese, e poi governatore dello stato di Lara. Non è chiaro perché abbia lasciato il Partito Socialista Unito nel 2010: alcuni sostengono che sia stato Chávez a non volerlo più, altri che fu lui stesso ad andarsene per divergenze sulla linea politica. Falcón ha continuato a governare come membro dell’opposizione, ma è stato espulso dalla MUD quando ha accettato di candidarsi alla presidenza.

Falcón è però convinto che Maduro debba e possa essere sconfitto solo attraverso regolari elezioni: cita il Cile di Pinochet, il Nicaragua, il Perù e anche la Spagna postfranchista. I critici sostengono invece che partecipare alle elezioni non farà altro che convalidare un sistema elettorale manipolato, in cui il presidente sceglie i propri avversari, e accusano Falcón e il suo partito di essere dei traditori: «Quelli che partecipano, come Falcón, stanno collaborando con il regime», ha detto Jorge Millán, un parlamentare dell’opposizione che afferma che non voterà. «Stanno aiutando Maduro, che sta cercando la legittimità in questa farsa elettorale».

Alcuni sondaggi indipendenti citati dal New York Times dicono che Falcón ha un vantaggio significativo su Maduro, alimentato dalla rabbia per la mancanza di cibo, medicine e acqua. Maduro, da parte sua, sta facendo una campagna elettorale basata sulla strumentalizzazione della fame e della paura, usando il cibo, la cui distribuzione è controllata dal governo, per radunare gli elettori e mobilitarli per il voto di domenica.

Diversi paesi, compresi gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile, l’Argentina, il Cile, la Colombia e il Messico, hanno già fatto sapere che non riconosceranno il risultato delle presidenziali. Diverse organizzazioni internazionali, come l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ma anche l’Unione Europea, hanno denunciato la mancanza di trasparenza e delle necessarie garanzie elettorali del voto di domenica. Tuttavia altri paesi – come Bolivia, Cuba e Russia – hanno espresso il loro sostegno per la giornata elettorale.

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