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 2018  maggio 20 Domenica calendario

Intervista a Bazoli

Un professore universitario e avvocato, Giovanni Bazoli, dal 2016 presidente emerito di Intesa Sanpaolo, che per senso civico accettò di guidare il Nuovo Banco Ambrosiano, dopo la stagione corsara di Roberto Calvi, conclusasi sotto il londinese ponte dei Frati Neri («Mi disse l’allora questore di Milano: “Dietro il caso Calvi c’è la peggiore organizzazione delinquenziale del mondo, per fortuna che non è di mia competenza”»). Un credente di respiro martiniano, consapevole cioè che in ogni uomo c’è un credente e un non credente. Un lombardo di rito bresciano, borghese rispetto alle bergamasche zolle di Roncalli. Il testimone di una terra custode di una visione del mondo che non si arena nel pragmatismo, nel particulare, ma si nutre di una cultura sospesa fra i Lumi e la manzoniana fede nella Provvidenza.
Quarant’anni fa il sacrificio di Aldo Moro, un rappresentante del cattolicesimo democratico di cui la sua Brescia è stata una fucina.
«Nella primavera del 1978 la nostra Repubblica ha vissuto una delle pagine più drammatiche della sua storia. Moro era allora l’uomo politico più influente d’Italia. La ricorrenza ci ha fatto rivivere, da un lato, la vicenda dei cinquantacinque giorni di reclusione vissuti da Moro in condizioni disperate e umilianti, terminati con la spietata uccisione del prigioniero inerme; dall’altro, il dilemma terribile, di ordine politico e morale, che si presentò ai responsabili del governo e dei partiti (che erano colleghi e amici di Moro): accettare un compromesso con i terroristi per salvare il prigioniero o rischiare il suo sacrificio per tutelare la ragion d’essere dello Stato».
Con Moro muore la Dc?
«La Dc è scomparsa, trasformandosi nel Partito popolare, pochi anni dopo. Ma è indiscutibile che l’assassinio di Moro ha privato della sua guida più autorevole la parte migliore della Dc: quella che discendeva “per li rami” da don Sturzo, che concepiva l’impegno politico in funzione dei valori e non degli interessi personali, che aveva sofferto il fascismo, che aveva partecipato ai lavori della Costituente con apporti elevati e determinanti di pensiero. Moro era l’esponente del partito più attento a cogliere e decifrare i segni dei cambiamenti in atto. Una guida che forse avrebbe permesso di affrontare in modo diverso due fasi cruciali della vita politica italiana successiva: fasi che lui aveva preconizzato».
Quali?
«La fase di Mani Pulite e quella della nascita del Pd. Su Tangentopoli è da ricordare come Moro avesse ammonito per tempo sia i compagni di partito sia gli avversari nel famoso discorso in cui aveva affermato: la Dc non si lascerà processare in piazza! Per quanto riguarda il Partito democratico, l’idea di creare una nuova formazione politica sulla base delle storie e ideologie profondamente diverse dei due partiti, la Dc e il Pci, che erano stati per decenni l’asse portante della nostra Repubblica, rappresentava una sfida molto difficile, ma che avrebbe potuto aprire prospettive nuove al rafforzamento delle fragili istituzioni della nostra democrazia. Tale sfida avrebbe richiesto in via preliminare un confronto approfondito di profilo ideale e culturale, che è totalmente mancato, ma che è proprio quello che Moro aveva avviato».
Il caso vuole (volle) che un bresciano, Mino Martinazzoli, suggellasse l’esperienza democristiana, varando il Partito popolare...
«Martinazzoli era politicamente vicino a Moro e Andreatta, molto stimato dal cancelliere tedesco Helmut Kohl. Uomo di grande levatura intellettuale e morale, amico di Mario Luzi, studioso di Manzoni, guidò il passaggio dalla Dc al Partito popolare. Ma si dimise di fronte al primo deludente risultato elettorale: una scelta lineare, ma più da intellettuale che da politico».
È seguito il ventennio dei governi berlusconiani, fronteggiato, con un’alternanza di successi e cadute, solo dall’Ulivo di Prodi...
«Un’esperienza, quella dell’Ulivo, che fu sempre insidiata dalle fatali divisioni della sinistra e che per di più non era certo favorita dalla Chiesa italiana. Era il tempo, non dimentichiamolo, dei valori dichiarati “non negoziabili”. Il Tevere si era fatto nuovamente molto stretto. Come molto tempo prima De Gasperi, così anche Prodi si trovò a dover rivendicare l’autonomia del laicato cattolico in campo politico».
Quarant’anni fa l’addio a Moro fu dato, con una celebrazione e con parole di eco biblico, da Paolo VI, ora prossimo alla canonizzazione, e anch’egli bresciano.
«In effetti Paolo VI è stato un figlio della Chiesa bresciana rimasto sempre intimamente legato ad essa. Il suo pensiero e il suo magistero, ma di più la sua stessa concezione della vita, trovano la loro fonte di ispirazione in quei valori umani, religiosi e civili che costituiscono un patrimonio peculiare della tradizione bresciana e che sono divenuti i motivi ispiratori della sua vita. Su due versanti entrambi essenziali: quello dell’amore per Cristo, da cui deriva l’ansia di diffondere e attuare le verità evangeliche, e quello – dettato dall’amore per l’uomo – da cui nasce l’esigenza di valorizzare la vita e le cose temporali».
Montini papa. In che cosa la grandezza?
«Condusse a compimento il Concilio. Con esso l’innovazione roncalliana nel segno di quella ricerca che costituisce il tratto peculiare del suo pontificato, di un nuovo umanesimo cristiano attraverso la conciliazione tra fede e pensiero moderno, tra Chiesa e mondo».
Lei ha conosciuto personalmente Montini?
«Ho avuto modo di frequentare Montini sia prima sia dopo la sua elezione al soglio pontificio grazie alla profonda amicizia che legava le nostre famiglie, in particolare suo padre Giorgio e mio nonno Luigi, che era stato tra i fondatori del Partito popolare e collega di Giorgio in Parlamento. Quando poi mio padre fu deputato per la Dc all’Assemblea Costituente e nella prima legislatura, io frequentavo l’università a Roma ed ebbi più di una volta l’opportunità di incontrare Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato. La delicatezza del suo animo non poteva essere colta nelle occasioni pubbliche, quando di lui poteva apparire un’immagine austera e distante, anche a causa della sua indole riservata. Nel rapporto diretto e personale si manifestava invece in modo toccante la sua estrema sensibilità umana. Ricordo a questo proposito l’incontro che ci accordò in occasione del nostro viaggio di nozze durante il quale Papa Montini parlò a me e a mia moglie di mia madre, morta giovanissima più di trent’anni prima, quando io avevo pochi mesi, rievocandola con accenti così vivi e commossi che ci emozionarono profondamente».
Ricorda in particolare altre occasioni di incontro con il Papa?
«Fui più di una volta invitato anche a Castel Gandolfo. Mi è rimasta scolpita nella mente la sua immagine una sera in cui, al termine della cena, accomiatatosi dai commensali, tutti amici bresciani, si avviò da solo nei corridoi semibui e deserti del palazzo apostolico. Mi parve di avvertire nella sua andatura il peso della tiara e delle responsabilità che gravavano su di lui in quel momento: stava meditando la Humanae vitae».
Tra i successori di Montini sulla cattedra di Sant’Ambrogio, Carlo Maria Martini...
«Ho avuto il grande privilegio di poter dialogare e persino di godere della confidenza con lui, insigne biblista e principe della Chiesa di visione apertissima. Martini, come tutti sappiamo, ha anticipato alcune delle posizioni più significative e innovative di Papa Francesco. Accadeva spesso che nelle nostre conversazioni ci soffermassimo sugli enormi e inediti problemi che il mondo d’oggi propone ai credenti. Al riguardo gli manifestai più volte l’auspicio che si potesse ricercare e proporre all’uomo d’oggi una nuova sintesi capace di armonizzare l’essenza del messaggio evangelico con gli orizzonti sociali, culturali e scientifici del nostro tempo. In altri termini, l’idea di riprendere i temi aperti dal Concilio Vaticano Secondo, sviluppandoli ulteriormente. Egli mi prese così sul serio che mi donò tre ponderosi volumi di un professore gesuita sul problema del metodo...».
Nelle grandi responsabilità da lei assunte, ha confessato più volte di avere vissuto momenti di grande solitudine all’atto di prendere le decisioni più importanti, oltre a momenti di delusione e amarezza. Per esempio, quello che sta attraversando?
«Lei forse si riferisce alla vicenda Ubi Banca, cioè al rinvio a giudizio che ho subito per il reato di “ostacolo alla Vigilanza”. Le rispondo che sono del tutto sereno perché il prossimo giudizio non potrà che accertare l’assoluta infondatezza dell’accusa: poggia tutta sul presupposto dell’esistenza di un patto di sindacato che sarebbe stato stipulato da un’associazione di cui sono stato presidente e sarebbe stato occultato alle autorità. Un patto che non è mai esistito. Ma non posso tacere lo sconcerto e l’amarezza di vedermi rivolta un’accusa di slealtà nei confronti della Banca d’Italia, con la quale ho invece sempre e fecondamente collaborato per più di trent’anni conseguendo risultati importanti per il nostro Paese».
Altri momenti di solitudine?
«Innumerevoli: dall’inizio e sino alla fine del mio impegno. Ai tempi del Nuovo Banco Ambrosiano, quando volli, anche contro l’opinione di importanti azionisti, che i soci del vecchio Banco venissero recuperati nell’azionariato, al fine di permettere loro di risollevarsi, nel caso di un favorevole nuovo corso, che si è effettivamente verificato. E ancora: la difesa dell’occupazione, anche quando i licenziamenti sarebbero parsi giustificabili. Soprattutto, negli anni successivi, le decisioni da prendere, in circostanze drammatiche (e che talvolta apparivano disperate), per difendere l’indipendenza dalle aggressioni ripetutamente subite».
Sono momenti in cui le ragioni morali contano più dell’esperienza e del sapere professionale?
«Parlerei più di coscienza che di ragioni morali. Perché mi piace non vedere separata la sfera morale da quella professionale, come sosteneva Raffaele Mattioli quando parlava di una concezione alta e nobile della professione, cioè di un “senso di responsabilità che in definitiva si identifica con una visione più lungimirante del nostro interesse”».