la Repubblica, 20 maggio 2018
Intervista a Carlo Verdone
Alla fine della nostra conversazione tutto ruota intorno all’animale ipocondriaco (anche se l’interessato smentisce). Carlo Verdone mostra una certa inquietudine. Gli torna in mente un appuntamento con il medico. È desolato come un padrone di casa che deve improvvisamente abbandonare il proprio ospite nel bel mezzo di un pranzo. È un problema all’anca, si giustifica. Forse pubalgia, ipotizza. Meraviglioso, penso. Sembra che di colpo sia entrato nella scena di uno dei suoi adorabili film. Un incontro con Carlo Verdone può essere la cosa più ovvia ma, a certe condizioni, anche la meno scontata. Nella bella casa romana osservo alcune chitarre, precisamente tre, deposte su un divano; una lunga sequela di foto incorniciate esibiscono l’amicizia con artisti famosi e relativa dedica “a Carlo”. Riconosco Bruce Springsteen, Meryl Streep che si protende per baciarlo, qualche chitarrista “maledetto”, protagonisti dei Led Zeppelin o di qualche altro celebre gruppo. Penso alle trattorie del centro storico e relative foto con dedica agli antichi proprietari. Lo osservo mentre parla con compunta precisione, senza trasandatezza, quasi avvolto da una serietà misteriosa. Distante dal comico che tutti noi conosciamo e amiamo. Sono qui, incuriosito dal suo rapporto con la musica. Una nota al limite dell’autobiografico apre un libro dedicato a Jimi Hendrix ( Hendrix ’ 68. The Italian Experience, edito da Jaca Book) dove Verdone riecheggia un brandello del suo Sessantotto: strappato e ormai liso eppure ancora in grado di sopravvivere nella memoria. Cosa ha significato la scoperta della musica? «È stata una delle mie più forti passioni, con mia madre insegnante di pianoforte che amava Fürtwangler ma anche Harry Belafonte e i Platters, con mio padre studioso di cinema che a volte tornava a casa la sera con le colonne sonore di Ennio Morricone e io che scoprivo la musica angloamericana. Un giorno mio fratello Luca portò un 45 giri, era Twist and Shout nella versione dei Beatles. Fu la folgorazione. La stessa che provai a 16 anni ascoltando per la prima volta Jimi Hendrix». Cosa c’era di così sconvolgente? «Era la musica del cambiamento, in qualche modo in anticipo sulla contestazione del Sessantotto. Anzi, in un certo senso gli fece da apripista. Proprio quell’anno venne in Italia Jimi Hendrix. Andai ad ascoltarlo al teatro Brancaccio a Roma. Una quantità impressionante di giovani si radunò per ascoltarlo. Io sembravo sotto effetto di ipnosi. Non ascoltavo la sua musica. Ero attratto dai due ciuffi biondi che Jimi aveva lasciato crescere e tinto ai lati della testa. Mi dava l’idea di un bizzarro sciamano alle prese con una tribù di scalmanati. Decisi di iscrivermi a quella religione fondando una band». Suonava cosa? «Non la chitarra, che avrebbe richiesto uno studio più profondo, ma la batteria. Alla prima band ne seguì una seconda. Tra i 17 e i 21 anni sembrò quello il mio destino. Poi mollai di botto». Perché? «Forse per timore di non emergere, forse per l’università cui mi ero iscritto o forse perché gli altri componenti del gruppo avevano preso una piega che non mi piaceva. Convinti che per suonare fosse indispensabile drogarsi. Mi sentivo su di un’altra sponda. Oltretutto, impaurito dalle conseguenze terrificanti che si cominciavano a vedere soprattutto nel mondo del rock». A parte la musica com’era il suo rapporto con la politica? «Inesistente. Mi piacevano le svolte culturali in atto: nell’arte, nella musica, nella letteratura, ovviamente nel cinema. Mi sentivo estraneo agli slogan politici di quegli anni. Non mi pareva che le piazze si fossero popolate di operai decisi a immolarsi per la rivoluzione; vedevo solo figli di borghesi con eskimo e mazze che sbraitavano contro lo Stato. Gli stessi privilegiati che anni dopo avrebbero finito con l’occupare posti di rilievo nella società». Il suo cinema ne è rimasto immune. «Sono stato coerente con le mie idee. Il che può non significare nulla dal punto di vista creativo. Ma molte cose prodotte allora, e non parlo solo del cinema politico, non hanno retto alla prova del tempo». Ritiene che il tempo sia stato clemente con il suo cinema? «Me lo auguro. Del resto, il grande pubblico che mi ha scoperto fin dall’inizio continua a seguirmi. Anche se a volte mi chiedo: devo fare per tutta la vita il comico?». Come è nata questa scelta? «È stata spontanea. L’Italia, Roma in particolare, era una prateria dove pascolavano personaggi incredibili. Li osservavo cercando di imitarli. E sentivo che funzionava. Gli amici ridevano». Quando dice imitazione cosa intende? «Non è una semplice sovrapposizione di caratteri, direi piuttosto una sintesi tra la voce, il gesto e l’immagine. Ricordo che uno dei primissimi personaggi che ho imitato è un prete che alla fine della cerimonia fa il discorso agli sposi. Scoprii che la sua voce era ammiccante, scivolosa, melliflua. Dovevo solo restituire quel finto tono di bontà che, come l’incenso, effondeva nella chiesa. Oppure mi concentravo sulla gestualità del personaggio: il bullo, che fuma a ripetizione e si tocca continuamente il “pacco”». Com’erano accolte in famiglia le sue performance? «Davanti ai miei film papà non è mai stato generoso. Non ha mai detto “bravo!”. Ogni volta che vedeva una mia opera diceva: nel prossimo mettici più poesia. Il solo film che credo gli sia piaciuto senza riserve è Borotalco. Mia madre, invece, è stata sempre una grande fan. Era convinta che avrei sfondato». Ha avuto ragione. «Si convinse a tal punto della mia bravura che affittò per una settimana l’intero teatro Alberichino. Mi costrinse a recitare. Senonché fui preso dal panico. E lei: vai fregnone che un giorno mi ringrazierai». A proposito di panico so che è un tipo ansioso. «Ho respirato ansia per anni, come fosse ossigeno. A 18 anni soffrivo d’insonnia. Mia madre preoccupata chiamò il professor D’Agostino, un luminare della psiche. Quando entrava in casa nostra era come se fosse arrivato Gesù di Nazareth. Capacità diagnostiche straordinarie e poche parole. Poteva camminare sull’acqua tanto la nostra fede in lui era assoluta». La visita e che succede? «A un certo punto mi chiese: ma che fai la notte quando non dormi? Scrivo poesie. Se scrivi poesie, fammele leggere. Mi vergognai. Insistette. Gli portai un quaderno. C’era dentro tutto il mio mondo crepuscolare. Poesie meste, dal titolo eloquente: “Autunno”, “La sedia vuota”, “Il pianto del nonno”, “Sulle dune di Sabaudia”. D’Agostino mi guardò come disgustato: “Serpax da 15 mmg”, sentenziò. “Per quanto tempo?”, chiesi. Tutta la vita, rispose. E poi aggiunse: ringrazia di essere una persona ansiosa, sei fortunato. “Perché?”, domandai. Altrimenti saresti una comunissima testa di cazzo. Tu con questa ansia ci devi convivere. Poi, un giorno forse si sfilaccerà e non ce la farà più a starti dietro e la tua vita diventerà più vuota». Così è accaduto? «Da circa 15 anni l’ansia è sparita». Avverte questo vuoto? «Indiscutibilmente c’è. È come quando si coabita con qualcuno di difficile e ci si augura che presto o tardi se ne vada. Poi, quando accade, si avverte il disorientamento. E magari si rimpiange quella presenza sparita». Le manca il modo di girare e di recitare quando c’era l’ansia? «Ero una persona diversa. Quel Carlo Verdone, con quella maschera, non c’è più. Non mi manca perché, tra l’altro, è scomparso il mondo di Un sacco bello che produceva quei personaggi. Una volta Alberto Sordi mi disse: A Carlè, ma hai visto che schifo? No, o sì, ma che voi dì? Sto dicendo che oggi per fare un film non sai da che parte cominciare. Si sono tutti omologati verso il basso. Nessuno si stupisce più di niente. Che poi erano le stesse cose che pensava mio padre». Come è stato il rapporto tra voi? «Penso che abbia fatto bene il mestiere di padre, forse anche perché non ha mai conosciuto il proprio. Un colpo di mortaio, nella prima guerra mondiale, disintegrò il nonno sulla collina di San Michele. Mio padre aveva due anni. E da allora, con pochissimi mezzi, si è fatto da solo». È stato un eccellente studioso di cinema. «È la parte più nota, ma lui è stato un apprezzato studioso delle avanguardie novecentesche e, in anni giovanili, assistente di Norberto Bobbio a Siena». Bobbio era un filosofo della politica. «È vero, però mio padre proveniva da studi giuridici e di scienza della politica. Il loro incontro risale alla fine degli anni Trenta. Tra loro c’era una differenza di una decina di anni, ma credo anche che papà vedesse in Bobbio una specie di fratello maggiore o di padre che non aveva avuto. Abbiamo trovato molte lettere che i due si sono scambiati nel corso del tempo. Lettere affettuose e piene di stima. Anche se Bobbio era un liberalsocialista e mio padre un socialista più aperto al comunismo». Aperto quanto? «Non ha mai avuto la tessera del Pci, ma spesso andava a Praga, a Mosca, a Berlino Est. Faceva frequenti viaggi nell’Europa di Oltrecortina. Una volta gli dissi: papà, ma non è che sei una spia? Si mise a ridere. La verità è che per i suoi studi sulle avanguardie artistiche e letterarie, quei luoghi erano indispensabili alla ricerca. Non è un caso che tra le persone che frequentavano casa nostra era ricorrente la figura di Angelo Maria Ripellino. Siamo partiti da Hendrix e arrivati al grande slavista. Camminiamo su strade misteriose». Per tornare allora a Hendrix, gli ha dedicato un film. «Maledetto il giorno che t’ho incontrato, che realizzai nei primissimi anni Novanta. Volli fare omaggio a un artista che ha reso la mia giovinezza più bella e felice. Il mio film più autobiografico». Il protagonista che scrive una biografia su Hendrix è pieno di problemi e va in analisi. Si riconosce? «Il mio analista diceva: tu hai successo e te la fai sotto. Pativo attacchi di panico e lui incalzava: ti servono atti di coraggio. Insomma non è stato semplice uscirne». Si può dire che ha vissuto male il successo? «C’è chi lo vive esaltandosi, o magari autodistruggendosi, io l’ho vissuto in maniera emotiva. Facevo ridere la gente sentendomi inadeguato. Pensavo: con la mia faccia come posso presentarmi al pubblico? È stata mia madre a trasmettermi fiducia e coraggio. Il panico non è da augurare a nessuno. Però un conto è la paura o la malinconia, altro è la depressione». Ne ha sofferto? «No, per fortuna. Perché la depressione è la morte dell’attore. Un attore vive di stupore, deve sempre essere curioso di qualcuno o qualcosa, deve amare la gente, anche se la odia. Il giorno in cui non prova più tutto questo è finito». Ha mai avuto la sensazione di sentirsi alla fine di un percorso? «Qualche volta sì, ma c’è stata sempre un’occasione per ricominciare». Non si sente prigioniero di un personaggio? «In 41 anni di cinema non mi ha mai sfiorato questo dubbio. Sono grato ai personaggi che mi hanno reso famoso. Al tempo stesso so che vorrei altro». Cosa precisamente? «C’è una parte di me che vorrebbe spingere sulle mie corde meno comiche. Ma non so se il pubblico che mi ama capirebbe». Ha paura del fallimento? «Ho paura che il produttore mi insegua con il forcone. Però mi piacerebbe rischiare. Ho una storia in testa di dolore, di solidarietà e di morte che vorrei affidare a un regista bravo». Si è mai immaginato senza più il cinema? «So che a un certo punto questo accadrà, mi auguro il più tardi possibile. Ho molti interessi: la campagna, gli amici con cui suonare, forse un libro da scrivere e un hobby che è tutta la mia vita: la fotografia». Cosa fotografa? «Nuvole, soltanto nuvole. Qui in terrazza, la macchina in alto e lo sguardo rivolto al cielo. Penso che sia la mia preghiera laica. Di foto ne ho realizzate più di tremila. Per me che soffro di agorafobia la nuvola è una specie di coperta che mi dà sicurezza. L’ora migliore è il tramonto. Guardo il cielo che sembra muoversi rapidamente, sotto la spinta del libeccio. E guardo Roma che da qui è ancora la città immobile e straordinaria della mia infanzia».