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 2018  maggio 20 Domenica calendario

Una domestica e una bambina in casa di Eduardo

Una ragazzina – timida al punto da sognare di essere invisibile – entra in un teatro di una grande città. È lì per conoscere, insieme a sua madre, un vecchio, famosissimo attore. Non si tratta di un provino, o almeno non in senso stretto. Mehret, la bambina, e Hiwet, la madre, sono eritree. Mehret è appena arrivata in Italia; sua madre, invece, aveva lasciato Asmara poco prima che si intensificasse il conflitto con la vicina Etiopia, nel ’74. Rimasta vedova, era partita in cerca di un’occasione, affidando la bambina a un collegio, una scuola italiana nella capitale. Dopo qualche anno, Hiwet torna a prendere sua figlia per portarla con sé a Roma. Ed eccole insieme, una domenica pomeriggio, pronte a mettere piede nel camerino di un uomo che ha segnato la storia del teatro italiano. È il 1979: Eduardo – nato insieme al secolo – ha quasi ottant’anni, e però passa le serate in scena, ribellandosi all’idea di essere diventato un monumento. Un’amica ha segnalato a Hiwet la famiglia De Filippo: c’è bisogno di un aiuto in casa, e lei ha già esperienza di domestica. «Eduardo, vedendomi, si illuminò. Mi venne incontro, dicendo alla moglie Isabella: tu parla con la signora, io ho da fare con questa creatura». Mehret Tewolde non se lo dimentica quel sorriso aperto – uno strano nonno, magrissimo, che tende la mano a una bambina nel camerino di un teatro. «Nonostante la mia timidezza bestiale – racconta – Eduardo riuscì a mettermi a mio agio. All’istante. Non mi trattò da estranea, non fece cenno alla mia provenienza. Come ti chiami? Quanti anni hai? Cosa ti piace? Fosse stato per me, mamma avrebbe dovuto accettare subito il lavoro». E invece Hiwet era un po’ perplessa: la casa dei De Filippo era grande, e lui, Eduardo, le pareva così vecchio e fragile. «Non era convinta, no. Io le avrei escogitate tutte pur di spingerla a dire sì, forse anche perché il mondo del teatro, che conoscevo pochissimo, mi affascinava. Alla fine, andò come speravo, e casa De Filippo fu praticamente la mia prima casa italiana». Mehret dice che forse, senza i cinque anni passati con Eduardo, lei non sarebbe la stessa. Il lavoro, dice così, «il lavoro che mia mamma e Eduardo hanno fatto perché non mi sentissi estranea, diversa in questo Paese che oggi sento mio», è stato fondamentale. E tanto più perché ha riguardato gli anni dell’adolescenza, quelli in cui le crisi d’identità possono essere brucianti. «Sì, certo, mia madre era lì per fare un mestiere umile – quello che io ho evitato di fare, proprio perché mi sarebbe sembrato di non riconoscere i suoi sforzi per me. Ma a casa di Eduardo ci sentivamo gente di famiglia: lui trattava allo stesso modo il ministro venuto a fargli visita e il fattore che arrivava dalla campagna di Velletri con gli ortaggi. Chiunque poteva sedersi a tavola con lui, nessuna differenza». Capitava che amici e colleghi fossero stupiti dalla presenza di una governante nera, nell’Italia dei primi anni Ottanta non era frequente. Il razzismo che di lì a poco si sarebbe rivelato dai microfoni aperti di Radio Radicale ( «ma forse gli italiani di allora erano anche più curiosi, meno diffidenti». Una volta, racconta Mehret, Eduardo pretese che un suo ospite chiedesse scusa per una frase pronunciata con intenti spiritosi (“Ti sei messo una negra in casa?”): “Ma non devi
farle a me – aggiunse indicando mia madre –, devi farle a lei”. Era una lezione sul rispetto che, diceva Eduardo, va preteso. «Il bello di stare con uno come lui era sentirsi compresi. Sapeva mettersi nelle scarpe degli altri. Se vedeva mia madre un po’ triste, le si avvicinava per incoraggiarla: Hiwet, sono partito con una scatola di cartone e una gallina! Quanto a me, era convinto che potessi fare tutto, anche quando non ci credevo nemmeno io. Più volte gli avevo confessato che mi sarebbe piaciuto cantare. Lui non commentava, sorrideva – quel suo tipico sorriso sotto i baffi. Poi un giorno venne a casa Sergio Bruni, il grande cantautore, e Eduardo gli chiese di ascoltarmi. Fu un vero disastro. Ma lui non si scompose: che figuraccia che abbiamo fatto, Mehret!». Erano gli anni in cui Eduardo insegnava all’università; da una cattedra della Sapienza spronava i suoi allievi: “Voglio darvi il coraggio di scrivere!”. Mehret dice che no, non era scostante, come qualcuno lo ricorda, ma severo sì, esigente: «Prima di tutto con sé stesso. Passava lunghe ore al tavolo, in silenzio, a pensare, a scrivere. O su una poltrona bianca in compagnia della gatta Pallina, talmente gelosa di lui che se restava troppo a lungo a parlare con un ospite, per protesta faceva la pipì sui manoscritti». I ricordi sono tanti: Eduardo che chiede a Mehret e a sua madre di fare le comparse in un suo spettacolo («Avrei fatto qualunque cosa, non potevo deluderlo, ma l’insolita, e divertente, esperienza durò per tre sere, perché poi la polizia contestò la nostra presenza sul palco»); Eduardo che insegna a me come usare la voce e parlare di pancia («Ci provavo, ma mi veniva da ridere») e a mia madre, in cucina, ricette della tradizione napoletana. E poi, l’ultimo saluto mancato: «Fu ricoverato alla fine di ottobre 1984, pensavo che sarei andata a trovarlo il primo novembre, approfittando della festa, e invece la telefonata arrivò la sera del 31». Eduardo, dice Mehret, mi ha lasciato in eredità me stessa. Oggi lei si occupa di progetti di promozione sociale per il continente africano; per anni ha lavorato allo Ior, prima dirigente donna: «Sarebbe contento di vedermi serena. Se non ho mai raccontato prima questa storia, è perché non credevo fosse importante. Oggi, invece, mi sembra utile. Il discorso sulle migrazioni va in una sola direzione. Non fa che accentuare le differenze, e le strumentalizza. Sulle prime pagine la parola d’ordine è rimpatrio. Da un lato lasciamo fuggire i cervelli, dall’altro ci preoccupiamo di rimpatriare i migranti; usiamo etichette diverse a seconda di chi si mette in viaggio. Sa qual è il punto? Dovremmo sforzarci di essere più sinceri con noi stessi. È la verità a farci paura».