la Repubblica, 19 maggio 2018
Divagazioni su «supportare»
D i «supportare» si può dire, con qualche certezza: «è passato». Non certo nel senso per cui sarebbe acqua passata, cosa superata, a cui non pensare più. Al contrario: «è passato» nel senso del candidato agli esami, o ancor meglio dello straniero dopo l’esito del controllo dei documenti alla frontiera. Sono tutti giri di parole per provare a evitare, invano, di dire che «supportare» è stato «sdoganato». Eppure è proprio così. Certi adattamenti dall’inglese non li sopportiamo; ci risulta invece più facile sopportare «supportare». Probabilmente succede perché anche in buon italiano abbiamo il «supporto» e, anzi, abbiamo avuto proprio anche il verbo «supportare»: ma quello vecchio significava «tollerare, resistere, reggere» (ed è poi divenuto: «sopportare») e quello (relativamente) nuovo significa invece «sostenere, favorire, appoggiare». La stessa cosa, o quasi, certo; ma sappiamo bene che nel primo caso agisce una connotazione di pesantezza e fastidio, nel secondo invece la sfumatura è di volontarietà ed entusiasmo. L’origine etimologica è la medesima, ma le due parole finiscono per avere significati quasi contrari. Se uno fosse particolarmente convinto della razionalità della lingua, come di un sistema in cui ogni cosa vada al proprio posto e ci fosse un posto per ogni cosa, allora dovrebbe chiedersi quale bisogno ci sia di adattare un verbo inglese per dire la stessa cosa che dicono tanti verbi italiani. È che la «cosa» non è mai davvero la stessa, i sostenitori non sono propriamente i «supporter». «Ti sostengo» è quasi banale; «ti supporto» è un impegno più serio, più convinto. E poi razionale la lingua non è. È sì un sistema, ma è un sistema umano: le chiediamo di mettere in ordine quello che le affidiamo e lei ci s*pporta, decidendo di volta in volta quale vocale sia la più adatta al caso.