La Stampa, 18 maggio 2018
I calcoli di Cottarelli
La bozza di accordo di governo suscita in me, come dire, una certa preoccupazione. Non tanto per la possibile immediata reazione dei mercati: lo spread è aumentato per un paio di sorprendenti affermazioni contenute nella prima versione dell’accordo, inclusa la richiesta di cancellazione del debito italiano verso la Bce. Ma si è poi stabilizzato intorno a 150 punti base, un valore del tutto sostenibile. Mi ha preoccupato invece parecchio quanto le misure economiche del programma comportino in termini di rischi futuri.
Il programma contiene anche obiettivi del tutto condivisibili: riforme strutturali quali la riduzione del peso della burocrazia, la lotta alla corruzione, l’efficientamento della giustizia civile. C’è anche, in linea di principio, l’intenzione di combattere l’evasione fiscale attraverso un inasprimento delle pene, anche se questa intenzione viene contraddetta da una disastrosa «pace fiscale», nuovo nome per l’ennesimo condono.
Quello che mi preoccupa sono però le intenzioni sui conti pubblici. I problemi sono due. Il primo è relativo alle misure di aumento della spesa e taglio della tassazione. Le principali sono la controriforma delle pensioni, il reddito di cittadinanza, la flat tax, senza però dimenticare l’aumento del numero di carabinieri e poliziotti, degli investimenti pubblici, delle spese per la famiglia. Vista la vaghezza di alcune affermazioni, è difficile quantificare esattamente il costo di queste iniziative, ma si tratta di 108-125 miliardi. A fronte di questi stanno coperture identificate (taglio dei vitalizi, del numero dei parlamentari, delle pensioni d’oro) pari a poche centinaia di milioni.
Si potrà dire che le misure previste verranno attuate solo gradualmente, ma questo sposta solo il problema più in là nel tempo. Si potrà dire che saranno individuate nuove coperture: nel programma si parla anche di tagli degli sprechi. Ma è un’affermazione generica e contraddetta da misure che contrastano con quanto occorrerebbe fare (per esempio l’aumento del numero dei poliziotti contrasta col fatto che già ora siamo ai primi posti in Europa in termini di forze di polizia).
Il secondo problema riguarda la generale filosofia che sembra ispirare il programma di governo e che è rivelata da un capoverso molto significativo. Quello in cui si dice che la riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil, che rimane negli obiettivi del futuro governo, sarà raggiunto attraverso la crescita del Pil a sua volta spinta «da investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno al potere d’acquisto delle famiglie». Insomma, il debito (rispetto al Pil) si riduce indebitandosi di più. Magari. Se fosse così non ci sarebbe più nessun problema di coperture. Il maggior deficit non solo si autofinanzierebbe, ma porterebbe a una riduzione del rapporto tra debito e Pil. Mi sembra improbabile.
Un aumento del deficit causa, al più, un aumento del Pil, non del suo tasso di crescita. Ma causa un aumento permanente del tasso di crescita del debito. So che la cosa può confondere. Proviamo con un esempio, perché è un punto fondamentale. Se io do 100 euro agli italiani (finanziandolo in deficit), loro spenderanno magari 100 perché il loro reddito è aumentato e il Pil cresce. L’anno dopo però il Pil resta allo stesso livello (a meno che il deficit non aumenti ulteriormente), ma il debito continua a crescere di altri 100 (perché l’aumento del debito dipende dal livello del deficit che è rimasto a 100): e il rapporto debito sul Pil aumenta sempre più. Qualcuno dirà: ma ce lo ha detto Keynes che occorre usare il deficit per sostenere l’economia. Vero. Ma Keynes non ha mai detto che un’espansione fiscale avrebbe fatto scendere il debito rispetto al Pil.
Non conosco un Paese che sia riuscito a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil in modo significativo facendo più deficit, cioè prendendo a prestito più soldi. Ho chiesto più volte a chi sostiene queste politiche di farmi qualche esempio, ma non ho mai avuto una risposta. Si cita talvolta il Portogallo: il governo socialista avrebbe capovolto le politiche di austerità, la crescita sarebbe ripresa e il debito sarebbe sceso. È una bufala. Il Portogallo ha mantenuto nel tempo le politiche di basso deficit e aumento dell’avanzo primario anche dopo l’avvento del governo socialista. Conosco invece una decina di Paesi che hanno ridotto il debito con caute politiche di bilancio (tra questi il Belgio che tra il 1994 e il 2007 ha ridotto il debito di 50 punti percentuali di Pil con un avanzo primario medio di quasi il 5 per cento; noi siamo al 2 per cento e il nuovo governo lo vorrebbe ridurre).
Quale è il rischio? Il rischio è che, se anche i mercati non reagiranno subito al programma del nuovo governo, saremo esposti a un cambiamento di umore dei mercati dovuto a qualche choc di origine interna o internazionale. Sarebbe anche peggio se questo choc causasse una recessione perché, a quel punto, con un debito in crescita rispetto al Pil e lo spread davvero in aumento, ci troveremmo costretti ad aumentare le tasse o tagliare la spesa, come è stato necessario nel 2012. A quel punto, qualcuno darebbe colpa all’Europa, chiedendo a gran voce l’uscita dall’euro. Tra quelli che sostengono le politiche incluse nel programma di governo c’è chi vede questo scenario come del tutto auspicabile.